In tutti i sensi. Di Roberto Cresti

Roberto Cresti, docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Macerata

Mi conoscevate
mani? Andai
per la via biforcata che indicaste…

Paul Celan

L’umanesimo antico nasce, con la sua fertile incertezza, da un passo delle Storie di Erodoto ove Solone risponde alle pressanti domande di Creso, su chi sia l’uomo più felice, con la nota frase «l’uomo è qualcosa di indefinito» (πᾶν ἐστι ἄnθρωπος συμφορή). Non si può infatti dire mai chi sia il più felice, dice Solone, né, se lo è, per quanto lo resterà: il conto è aperto fin dall’origine. Ne saprà presto qualcosa Creso stesso, il quale, dopo una rapida ascesa, andrà incontro a una vera e propria catastrofe.
Questo principio, che è il pilastro della nostra civiltà nei suoi aspetti migliori, è stato ripreso, in un tempo più recente, da Friedrich W. Schelling, il quale, nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809), scrive: «l’uomo è un essere […] non deciso» (Der Mensch ist […] ein unentschiedenes Wesen), e subito aggiunge che, proprio per questa ragione, «può decidersi da sé» (er selbst kann sich entscheiden).
Interprete, a sua volta, di un umanesimo antico che si rinnova nella modernità, Friedrich Nietzsche ha messo in positivo la questione dell’essenza umana, affermando, nella Genealogia della morale (1887), che la terra è «la stella ascetica» (asketische Stern), ovvero il corpo celeste abitato da coloro i quali curano la propria radicale «non decisione» con esercizi che tendono a superare ogni limite anche di ordine fisico.
Un’idea, questa, da cui sono derivati una quantità di eventi storici – non tutti positivi – accaduti negli ultimi due secoli, ma che, detratte tutte le negatività, permane con una valenza che costituisce l’invito permanente a non darsi per vinti, e a bandire il pregiudizio che qualcosa esista “per natura”, ma anche che non vi sia una “natura umana”, quest’ultima essendo proprio nell’esercitarsi a essere se stessa, prendendosi cioè cura dell’indecisione da cui tutti siamo costituiti, ma anche motivati.
L’importante è estendere i limiti (in senso lato) nei quali ci troviamo ad “operare”, e questo tentativo riguarda la coscienza in termini intellettuali, ma anche la sensibilità, cosicché qualsiasi estensione può riguardare i due ambiti specifici a partire da come li abbiamo ricevuti. Nel pensare e nel sentire la protesta contro ogni forma di pregiudizio, in particolare in materia di identità sessuale (anche se non mancano i naturalismi di ritorno), ha portato a volgere ogni limite in un punto di partenza dotato di una propria specificità e questo è tanto più giusto quando si tratta di un vulnus naturale, il quale restringe e condiziona il nostro stare e agire nel mondo.
Si può tuttavia scoprire anche una operatività “ulteriore”, che si cela sotto un limite, cosicché l’esercizio non mira solo a risanare ciò che, in molti casi, non può esserlo, ma a estendere quel limite in una scala di esperienze che ambiscono a avere un proprio valore autonomo: come un “intermedio” che diviene in sé stesso una “totalità”.
Di più: in questo modo, possono rivelarsi altre dimensioni intellettuali e di esperienza sensibile che sono state magari accantonate, come quelle, per esempio, di cui riferisce Rudolf Steiner in una serie di conferenze intitolate Aspetti dei Misteri antichi, nelle quali racconta, col suo metodo fondato sulla lettura della cronaca della Akasha, del rituale che si svolgeva nell’antica Irlanda (l’Ibernia romana) ove il neofita veniva ammesso a saggiare due statue: una, nella quale le sue dita si imprimevano, l’altra, di un materiale che, se premuto, riacquistava subito la propria forma.
Nel primo caso egli toccava ciò che gli veniva rivelato essere l’“arte”, nel secondo la “scienza”. L’una era senza verità l’altra senza esistenza. Il suo compito era così di dare verità all’arte e vita alla scienza, congiungendole nel proprio Io: il quale diveniva cosciente di sé proprio nell’atto di com-piere tale “esercizio”. Nel rapporto del tatto col vuoto (affondare nella materia) e col pieno (sentirne la superficie) si poneva dunque una dimensione “vivente-latente” che doveva essere “esercitata”.
Lo stesso sembra apparire, con un altro metodo di indagine, in ciò che Jacques Lacan ha affermato del vaso in terracotta come prototipo d’ogni creatività, nel senso che il suo formarsi sul tornio, fra le mani dell’artigiano, costituisce la sintesi «non decisa» fra il pieno e il vuoto, con la scoperta del nesso fra l’uno e l’altro al di là delle morfologie rinvenibili in natura. Il vaso infatti è tipicamente umano, può richiamare un utero o un cranio, ma è anche l’archetipo di una dimora. Esiste, per esempio, un vaso fatto esattamente come una piccola casa portatile, che risale al 3000 a. C. , e che costituisce un oggetto «non deciso» sul quale l’intelligenza si è “esercitata”.
Questi due esempi, sembrano essere molto calzanti per tutto quanto riguarda le facoltà di conoscenza dei non vedenti poiché inducono a individuare nel loro vulnus naturale l’orizzonte di esercizi che possono essere sviluppati, non solo per fronteggiare tale vulnus in sé, bensì per offrire, anche a chi non sia nella stessa condizione, l’occasione di condurre, tramite il tatto, delle esperienze conoscitive inaspettate.
Come le tecniche fisiatriche concepite per riabilitare i mutilati della Grande guerra sono divenute col tempo tecniche d’esercizio per tutti (è il caso del metodo Pilates), la fruizione tattile delle forme artistiche, segnatamente di quelle plastiche, come avviene ai visitatori del Museo Omero di Ancona, può risvegliare anche nei normovedenti, una sensibilità accresciuta e sottile delle stesse, secondo un indirizzo che è stato scelto persino da grandi scultori del XX secolo come Arturo Martini. Il quale dichiara in alcuni appunti critici: «Escludendo la vista, stanca e ingombra di tutte le simpatie e le in-crostazioni delle opere antiche, sentivo la promessa di un rinnovamento». E ancora: «Il tatto ha una sua veggenza, pensavo, e mi guiderà in un mondo di primordiali possibilità. Passando da un’isola decrepita a un’altra nuovissima, la mia inquietudine troverà quello che da sempre cercavo».
Martini adombrava una moderna Odissea infrasensibile, che anche altri maestri nell’arte plastica, come Auguste Rodin e Wilhelm Lehmbruck, avevano intrapreso, prima di lui, con opere nelle quali la forma ha il carattere «non deciso» di una rappresentazione dell’essere umano in perenne meta-morfosi. Joseph Beuys vi vedeva i presupposti dell’evoluzione dell’arte verso una «scultura sociale». Ed è proprio questo “esercizio” civile, creativo e insieme conoscitivo, di cui oggi abbiamo bi-sogno: esso ci ricorda che «l’uomo è qualcosa di indefinito» davvero in tutti i sensi.