Disegno come terapia. Gabriella Papini intervista Arianna Papini

Arianna Papini, Premio Andersen Miglior Illustratore 2018

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– Lei è scrittrice, pittrice illustratrice, formatrice, docente e arte terapeuta. Un bagaglio pesante e affascinante. Tutto all’insegna della comunicazione ed espressione artistica. La partenza, forse la vocazione, nasce dal disegno, anzi dal segno? C’è un momento specifico che ricorda? (mi sembra che lei ad Ancona abbia accennato alla sua prima infanzia)

La partenza sì, è dal segno. Dal silenzio. Osservando le immagini splendide degli Uffizi da piccolissima ho saputo di voler fare parte di quel mondo. Sentivo allora come adesso che tanta bellezza nel narrare cose belle e brutte era insostituibile per me. Sapere usare l’arte per comunicare il mio silenzio era il desiderio più grande. A volte i bambini mi chiedono se io ami più scrivere o illustrare. I miei mezzi espressivi li adoro tutti, canto anche e suono quando posso, ma davvero credo che dell’arte non potrei mai fare a meno.

– La sua lunga esperienza come illustratrice e responsabile editoriale di libri per bambini, di raffinata e calda bellezza, i cosiddetti libri-giocattolo, le consente di avere una profonda conoscenza del mezzo grafico, della comunicazione visiva e del rapporto che si instaura tra l’immagine e chi la guarda. L’illustrazione quando è efficace? E cosa si può raggiungere con una storia illustrata?

L’illustrazione a mio parere è efficace nella misura in cui non vuole insegnare ma semplicemente si applica ad una delle infinite letture di un testo. Illustrare è interpretare, come nell’opera lirica o nel balletto, una sinfonia di parole che esiste già. Noi illustratori dobbiamo amare profondamente un testo per illustrarlo bene, dobbiamo farci piccoli e rispettarlo, scoprirne i significati più reconditi, altre vie di lettura e soprattutto trovare lì una parte della nostra storia. È quando un testo risveglia la nostra memoria, allora, in quel momento, accade il miracolo: nascono i colori e vanno fluidi, come senza guida. È per questo un mestiere difficile. Nasce da dentro ma vive solo nel rapporto con gli altri. E qui vengo alla seconda domanda. Con una storia illustrata si può aprire a nuovi mondi e curiosità, possiamo dare luogo alle storie altrui e costruire case per le persone, intento che avevo quando ho preso la laurea in architettura. E nelle case, lo sappiamo, nasce la vita.

– Sono stati i differenti linguaggi creativi che lei ha affrontato con successo a spingerla verso l’arteterapia? Era forse inevitabile?

Io mi sono sempre curata con l’arte e ho fatto la stessa cosa quando ho accolto bambini e adulti nei laboratori. L’arte cura in sé ma necessita, come per tutte le altre terapie, di un contenimento e una guida. Forse era inevitabile, sì, l’ho pensato spesso. Mio padre era un neuropsichiatra bravissimo, aveva un suo metodo molto particolare, molto empatico. Era una figura immensa per me, un riferimento per tutte le cose della vita. A volte penso di aver fatto un giro largo per arrivare a prendermi cura delle persone proprio per capire, nel tempo, se fosse possibile fare il suo stesso mestiere.

– Di arte terapia spesso si parla approssimativamente, riducendosi ad affermare che l’arte abbia un effetto benefico. Può indicarci i punti fondanti di questa materia certamente complessa?

È una materia complessa, bellissima, e ancora poco conosciuta e rispettata. Per fare l’arteterapeuta ho effettuato una formazione post laurea di quattro anni, con tirocinio lunghissimo con pazienti in supervisione, esami, tesi. Ho preso il diploma per fare seriamente il mio lavoro. Si chiama arteterapeuta chi ha un diploma. Poco importa che ancora in Italia, a differenza dei paesi anglosassoni, il nostro mestiere non sia riconosciuto come si deve. Io sono molto rigorosa. I punti fondanti sono numerosi e sarebbe impossibile elencarli tutti in questa sede, quello più importante per me che faccio arte è l’assenza di intento estetico. L’arte, i materiali, si utilizzano in arteterapia unicamente con intento espressivo, senza pensare al risultato finale. Questo rovescia totalmente il processo creativo e fa dell’arte un meraviglioso percorso privo di ansie da prestazione. I materiali sono lì nella stanza per aiutare il terapeuta e il paziente o i pazienti a percorrere una strada che renda possibile la comprensione del dolore. Questo è stato illuminante per me e ha cambiato radicalmente anche il mio modo di fare arte.

– Presso il suo Studio di Firenze, lei tiene gruppi terapeutici, auto narrativi e artistici con persone di ogni età. Può dirci di cosa si tratta?

Sediamo in cerchio. Io conduco. Possiamo partire da un tema, spesso dalla lettura di un albo o di una poesia. I materiali sono al centro. Le persone si raccontano. Il gruppo si muove a onde, empaticamente. Chi conduce dà il suo taglio al lavoro, è come un direttore d’orchestra o il regista di un film. L’attenzione è totale, non perdo mai di vista nessuno, ne esco spossata ma intensamente viva e colma delle storie di tutti i partecipanti. Loro escono leggeri. È come se mi lasciassero lì ciò che a loro non è utile. Io poi dipingo e sublimo ciò che ho accolto, ma i miei quadri dialogano solo con me e, a volte, in seguito, con chi li acquista.

– Amare e vivere con l’arte è sempre una terapia benefica?

Sempre. L’arte ci viene in aiuto con la sua forza silenziosa e persistente, con la sua capacità di dialogare con e attraverso i corpi. Benefica sì ma anche fortissima e colma di verità. A volte chi afferma di non saper fare arte è solo molto sensibile o ferito e l’arte ha la capacità di scoprire il dolore, renderlo evidente e a volte insopportabile. Il più delle volte cura in sé, solo facendola. Altre volte necessita di una guida sapiente. Ci sono pazienti ipersensibili o molto feriti e doloranti, in genere faccio loro usare fotografie o parti di riviste, in modo che trovino in figure o colori già pronti il primo spunto per narrarsi. Perché la scelta è loro. Noi siamo solo ponti, tramiti tra chi sta male e la vita. Quando loro ci utilizzano per attraversare il fiume allora, in quel momento, sappiamo di essere al mondo per un ottimo motivo.