Un Ritratto di Museo. Un’escursione nella multisensorialità per un’interpretazione identitaria del Museo Omero. Di Massimo Vitangeli

Massimo Vitangeli, artista e professore di Arti Visive. Curatore del progetto Arte, tra antropologia e orientamento sinestetico; avviato a maggio del 2016 nel Dipartimento di Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Urbino.

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In questo caso la storia dell’arte moderna e contemporanea può essere provvisoriamente sintetizzata all’interno dell’antitesi occhio e sguardo, apparente ed intimo, vedere e comprendere, guardare e sentire, in tutte le sue possibili coniugazioni. Lo slittamento avviene tra il concetto dell’immediatezza, di un’occhiata (ein Blitz), ed il suo opposto, l’Einblick (lo sguardo), che approfondisce, indaga, esplora, oltrepassa il limite dell’apparente per cogliere la presenza dell’invisibile in ciò che trasuda, che vibra, edificando quella sensibilità profonda percettiva e cognitiva allo stesso tempo, che si muove perlopiù su terreni inediti e attraverso precise modalità di scrittura.

È un’epoca in cui parlare di apprendimento non significa più educare all’arte, ma porre l’arte al centro dei processi di formazione. L’esplorazione di nuovi campi del design, della scultura, dell’installazione, della pittura, del sound, della performance e del video, mettono in discussione i confini apparentemente definiti tra arte e quotidianità. Le nuove generazioni cercano forme espressive adatte a rappresentare i meccanismi della coscienza contemporanea e lavorano per una nuova visione dello spazio e del tempo, dando vita a inedite e originali coniugazioni sinestetiche, dove la sperimentazione sui linguaggi diventa fondamentale per la continua ridefinizione della realtà che si presenta attraverso la pluralità di zone liquide e dinamiche temporali da conquistare.

Un Ritratto Di Museo è un workshop esperienziale che vede l’utilizzo dell’arte e la sua speculazione filosofica in maniera decentrata rispetto ai paradigmi precostituiti, dove l’opera viene intesa come montaggio di tempi differenti che servono spesso a porre nuove questioni d’intellegibilità capaci di trascendere il senso del tempo ed embricare le diverse dimensioni della percezione, in particolare quando riescono a comporre un ritmo particolare mostrando il battito vitale dell’opera. Un ritmo antropologico che si confronta con il vedere ed il sentire contemporaneo, rimettendo in gioco i regimi abituali della comprensione aprendo un portale verso un sapere rivoluzionario fondativo di nuove istanze culturali e di nuove forme del sentire.

A suffragio di questi intenti nel workshop si ricorre all’arte che, con tutte le sue declinazioni, procedure e dispositivi, costituisce sicuramente una magnifica forma di orientamento, capace di traghettarci laddóve nemmeno la coscienza può arrivare, intesa nell’accezione bergsoniana quando attesta che il “corpo ampliato” ha bisogno di un “supplemento d’anima”, come avviene nella “sperimentazione Fluxus”, rappresentativa della fusione di più codici artistici secondo modalità non dissimili da quello che oggi definiamo multisensoriale o sensorialità plurima.
O come quando Bergson asserisce “c’è più realtà e creatività nella percezione che nel concetto e nell’intelletto” che suggerisce di lasciarci avvolgere dalla “Polvere Visuale” (con cui Nam June Paik definì il linguaggio video), per esperire poetiche inaspettate che l’immagine in movimento è ancora capace di offrire. Esortandoci anche a concederci, disarmati e sinestetici, alla fascinazione filmica delle mappature corporali di Maya Deren in “At Land”, quando esplora spazi interni ed esterni antitetici e differenti, procedendo con il proprio corpo sinuosamente in uno stato ipnotico e rituale. Un viaggio somestesico carico di libertà ed emozioni al quale è difficile sottrarsi.

Si ricorre anche alla riflessione fenomenica di Merleau-Ponty di cui l’analisi filosofica tende a costruire un’ermeneutica che si basa sul “non detto”, di cui il silenzio genera un “dopo” che ci fa accedere alla dimensione del possibile come nelle tecniche aleatorie e casuali di John Cage, predisposte per alimentare lo spazio indeterminato dei suoni casuali, dei silenzi semantici, elementi espressivi pieni di potenziale significato. O come quando il filosofo afferma che “è la felicità dell’arte a dimostrare come qualcosa diventi significato” che veniamo proiettati nelle opere minimaliste e videoinstallative di Nam June Paik, realizzate con i televisori modificati per distorcere l’immagine elettronica. Facendoci anche riflettere sulle vertiginose sperimentazioni vocali di Fortunato Depero, e successivamente nel tempo, su quelle più fenomeniche di Demetrio Stratos.
Lasciandoci inoltre sorprendere dalle suggestioni multiple, contemporaneamente visive, architettoniche e sonore che ci vengono consegnate dalle emozionanti installazioni di Zimoun, veri e propri spazi sonori capaci di stimolare e generare nuove prossemiche della mente.

Si ricorre anche all’arduo territorio del Perdersi, elaborato da Franco La Cecla attraverso una profonda riflessione antropologica e positivistica che si rivolge in particolare alle soglie, ai confini tra le culture, dove Il concetto di luogo diventa relativo e si indaga il costituirsi di nuove forme di cittadinanza che prescindono i confini geografici; assunti che trovano una significativa corrispondenza con le tematiche ricorrenti nel lavoro di Joseph Beuys, come la solidarietà sociale e ambientale, relazioni politiche e crisi della cultura europea.

È dunque questo in sintesi il territorio in cui intende muoversi il workshop Un Ritratto Di Museo, e volendo scomodare Félix Guattari vale assai l’asserzione che ”  … l’arte non deve solo raccontare delle storie, ma creare dei dispositivi in cui la storia possa farsi…”
In fondo tutti noi, con i nostri corpi, le nostre anime e le nostre menti, apparteniamo già antropologicamente ad uno straordinario sinestetico Atlante warburiano, e nonostante a volte ci presentiamo alla realtà con le nostre fragilità del dubbio e dell’esitazione, rimane sempre in noi vivido e intenso l’irriducibile desiderio di essere tangibili, e come affermava il gigante Heidegger, “l’importante è esserci!”

Un ritratto di Museo, a cura di Massimo Vitangeli, 8 incontri ad Ancona – Museo Omero- da gennaio a marzo 2019.