Perché Aisthesis. Di Aldo Grassini

Aldo Grassini, presidente del Museo Omero

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La nascita di una nuova rivista è sempre un evento. Una rivista cartacea? In rete? Che importa il mezzo!

Oggi si preferisce parlare piuttosto che scrivere, ma troppo spesso l’immediatezza della parola, sfondati gli argini della spontaneità, si disperde nelle paludi del pressappochismo e della sciatteria. E così la superficialità diventa un valore e la riflessione seria ed attenta un’anticaglia noiosa e polverosa.

Ma noi, che pur non disdegniamo la comunicazione parlata, siamo seguaci rispettosi della parola scritta e proponiamo agli altri ed a noi stessi un luogo di discussione in cui il dire si accompagni al riflettere e al pensare ed il fattore tempo non divenga l’assopigliatutto. Insomma, la nostra rivista non si preoccupa di indossare gli abiti dell’ultima moda, ma ci tiene a misurarsi con la viva attualità.
E perché “Aisthesis”? Perché questa parola greca? Non c’è mica un pizzico di snobismo? E chi lo sa! Quando un gruppo di amici si confronta per settimane alla ricerca di un bel titolo per la sua rivista, come due genitori che discutono sul nome del loro primogenito, poi ad un certo punto arriva la folgorazione: Aisthesis per noi può significare “sensazione”, ma anche “sensibilità” o “sensorialità”; un concetto che molti rifiutano come un sottoprodotto dell’intelligenza ed altri esaltano come la forma più autentica del dialogo con le cose. Ma per noi “Aisthesis” conserva il sottile profumo di un antico mondo in cui il pensiero della vita e la vita del pensiero si davano la mano per camminare insieme; un mondo in cui la natura e lo spirito non si scontravano per una reciproca eliminazione, ma riuscivano ad integrarsi in una perfetta armonia che neppure il dualismo di Platone poteva incrinare; un mondo che, pur avendo dismesso i ruvidi panni della barbarie, riusciva a creare una sintesi feconda tra il vivere a contatto con le cose e il guardarle dalle altezze del pensiero.
Insomma, percepire e pensare non sono per noi i poli di due estremità incomunicabili, ma, al contrario, concretezza ed astrazione si richiamano e si fondano l’una sull’altra.
Il senso non è l’unica fonte della conoscenza per poi disperdersi in un relativismo senza mète e in uno scetticismo senza speranza, e neppure la radice profonda dell’erotismo che si rinchiude in un individualismo privo di sbocchi etici e sociali. E il pensiero non è il dio dell’Olimpo e non galoppa tra le nuvole guardando solo gli astri, sprezzante della vita che brulica laggiù nel mare e sulla terra!
La sensazione è il primo gradino di una scala che culmina nella conoscenza e, come tale, essa va apprezzata e rispettata poiché in un lungo camino il primo passo ha la stessa importanza dell’ultimo.
La sensazione è il fondamento della fruizione artistica: ci offre quel piacere immediato che si trasfigura e si sublima nel piacere estetico dell’elaborazione intellettuale.
Dunque, viva le sensazioni, tutte le sensazioni che sono le avanguardie del sapere e della fruizione del bello!

La tattilità

Il nostro tempo ha ormai perduto quella mirabile fusione di spirito e materia, di senso ed intelletto che per i Greci illuminava l’armonia dell’universo. La nostra civiltà sembra aver dimenticato che la natura ci ha donato cinque sensi per gestire il nostro rapporto con il mondo.
E i sensi vengono classificati secondo una rigida gerarchia, come le cinque caste della società indiana: al vertice la casta dei brahmini, – le sensazioni visive, – e in fondo alla scala gli intoccabili, rappresentati – mi si perdoni il paradosso! – proprio dal tatto!
Oggi la vista è l’assoluta dominatrice del regno della percezione e spesso “vedere” è sinonimo di “pensare”. Del resto, lo stesso Platone aveva chiamato “idee”, cioè “visioni”, gli oggetti del pensiero, i modelli intelligibili della realtà.
L’avvento della televisione segna il trionfo della società dell’immagine su quella della parola. La tv sta all’immagine come la radio sta alla parola. Si tratta della sopraffazione dell’udito da parte della vista. La vista è il senso delle cose, l’udito il senso della parola. Concreta e veloce la prima, lento ed astratto il secondo, destinato inevitabilmente alla sconfitta in una società che corre, che accelera, che coglie un risultato dopo l’altro, ma con il rischio di trovare, in fondo alla pista, la solitudine e la nevrosi. Quanto alla comunicazione, la brevità viene confusa con la sintesi ed il messaggio generico e schematico diventa un modello di efficienza.
Nel regno del vedere il buio e la cecità diventano la metafora dell’ignoranza e della barbarie.
E i ciechi? Come possono adattarsi ad un mondo in cui conta solo il vedere?
I ciechi per secoli e millenni hanno vissuto fuori dal consorzio umano, emarginati ed impresentabili. Certo, sono esseri umani ed hanno gli stessi diritti di tutti gli altri, e per fortuna c’è la filantropia! Ma non pretenderanno mica di rovesciare il mondo e di modificare una società in cui conta solo l’immagine, cioè il vedere! Si accontentino di usare il tatto, quando è concesso.
I ciechi per secoli hanno vissuto un’esperienza nibelungica, sotterranea, assolutamente marginale.
Del resto, il tatto è il loro strumento, il tatto che è il paria dei sensi!
“Guardare e non toccare” è la prima cosa che si insegna ai bambini. Toccare evoca lo sporco e il rischio del danneggiamento, il tatto è il senso dell’erotismo ed evoca il peccato. Dunque, vietato toccare è la regola generale e diventa un postulato inderogabile se si tratta di cose preziose e quasi sacre. E’ un imperativo categorico in quasi tutti i musei, anche se la stragrande maggioranza degli oggetti in esposizione non subirebbe alcun danno se toccata nella giusta maniera.
E tuttavia i ciechi, questo popolo del sottosuolo sociale, qualcosa hanno scoperto e qualcosa possono insegnare: il valore estetico della tattilità.
i privi della vista possono apprezzare l’arte attraverso l’esplorazione tattile? Al di là di qualsiasi elucubrazione teorica, alla domanda di Diderot può rispondere l’esperienza del Museo Omero. Nei suoi oltre vent’anni di attività esso ha potuto raccogliere la testimonianza di migliaia di ciechi. Molti di loro hanno compreso o, se volete, hanno saputo dare un senso ad alcuni capolavori dell’arte; ne hanno ricavato profondi stimoli culturali e si sono emozionati di quell’emozione autentica che è prodotta dalla scoperta. E’ ciò che accade in ogni esperienza estetica.
L’itinerario è diverso: qui si parte da una sensazione tattile, anziché visiva, ma l’effetto è analogo. Dalle mani alla testa, al cuore.
La differenza sta nella percezione sensoriale. Le sensazioni visive sono diverse dalle sensazioni tattili, ma ciò che conta è che le une e le altre sono capaci di stimolare l’intelletto ad individuare forme, a scoprire significati, ad evocare esperienze, a produrre emozioni.
Tutte le sensazioni sanno produrre un piacere peculiare alla loro natura ed il tatto non fa eccezione. Alcune qualità degli oggetti sono percepibili soltanto attraverso il tatto (il peso, la temperatura, la solidità) ed i materiali possiedono qualità sensoriali percepibili soltanto grazie al contatto fisico con l’oggetto. Esiste una ricchissima gamma di sfumature e di complesse combinazioni che arricchiscono la conoscenza e generano sensazioni piacevoli. Il piacere dell’occhio e il piacere della mano forniscono all’intelletto il materiale “grezzo” che esso deve saper elaborare ed arricchire in quella che definiamo come un’esperienza estetica.
Il tatto può esibire anche un’altra freccia del suo arco: esso annulla lo spazio, cancella le distanze. L’oggetto non è più lontano, estraneo, in certo senso indifferente; quando lo tocchiamo, diventa un tutt’uno con noi, andiamo a costituire un’unità che comporta notevoli conseguenze emotive. Un rapporto affettivo con le persone, con le cose e, perché no?, anche con l’arte s’arricchisce di sfumature ed acquista intensità attraverso il contatto fisico.
Insomma, i ciechi hanno dimostrato che può esistere una seconda via che conduce alla fruizione della bellezza: l’esplorazione tattile. Ma questa strada non è affatto preclusa anche a chi vede, il quale può aggiungere all’esperienza visiva le peculiarità e gli stimoli di quella tattile.
L’arte contemporanea sta scoprendo questa ulteriore dimensione e la multisensorialità rappresenta una nuova sfida che trova cultori sempre più numerosi.