Sabina Santilli, la donna che portò i sordociechi fuori dal buio

di Sara De Carli.

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Nel 1962 il mondo scoprì l’esistenza dei bambini sordociechi. Lo fece attraverso le immagini claustrofobiche e commoventi del film “The miracle worker” (tradotto in italiano come Anna dei miracoli), che raccontava l’infanzia di Helen Keller, la prima sordocieca che, grazie alla sua insegnante Anne Sullivan e all’istruzione, riuscì a riscattare la propria condizione e a realizzare quello che oggi si chiama diritto a una vita indipendente. Andò al college, si laureò, girò il mondo, mise in piedi un movimento di advocacy ante litteram per la promozione dei diritti delle persone disabili. Insomma, diventò un simbolo.
Appena un anno dopo uscì un libro che raccontava la vicenda di un’altra ragazzina, Laura Bridgman. Di lei aveva parlato anche Charles Dickens nel suo American Notes. Laura fu la prima sordocieca al mondo a comunicare con il mondo esterno e ricevere un’istruzione, un buon cinquant’anni prima di Helen Keller, anche se non arrivò al suo livello di indipendenza, attivismo, cultura e fama. Il libro si intitolava The child of the silent night.

Negli stessi anni, in Italia, Sabina Santilli imbastiva con pazienza certosina una rete informale di contatti tra i sordociechi italiani, che nel 1964 avrebbe portato alla nascita della Lega del Filo d’Oro, la prima associazione in Italia ad occuparsi di sordociechi. Anche lei era stata una “bambina della notte silenziosa”, proprio come Laura ed Helen. Anche se a lei quel modo di dire non piaceva per niente: «the children of the silent night è una bella espressione poetica, ma non è esatto», scriveva.

Sabina è nata il 29 maggio 1917. È la fondatrice della Lega del Filo d’Oro, una realtà molto conosciuta: da sessant’anni si occupa della riabilitazione di chi non vede e non sente. Sabina è l’Helen Keller italiana, che però quasi nessuno conosce. E la retorica finisce qui. Perché per raccontare Sabina così come era, per esserle in qualche modo fedele, bisogna sgomberare mente e linguaggio. L’agiografia pietistica l’aveva già liquidata lei il 2 giugno 1968, mentre la radio annunciava la morte della Keller: «Mentre il mondo parla di ‘miracoli’ nei suoi riguardi, noi abbiamo ragione di dire (non senza un risolino sotto i baffi) che è stata invece solo il primo esempio. È infatti normale che un ciecosordo può essere una persona normale, purché aiutato in tempo e a proposito». Questo fu, appunto, il sogno di Sabina. Ed è oggi la sua eredità.

Sabina, all’asilo legge e scrive

Nel 1917, quando Sabina nacque, il suo paese aveva appena perso più della metà dei propri abitanti: l’epicentro del terremoto della Marsica, undicesimo grado della scala Mercalli, 30mila morti, fu proprio nella conca del Fucino. San Benedetto dei Marsi pianse 2.700 vittime su 4.200 abitanti. Pacifico Santilli e sua moglie Elisa persero due bambini e la casa, ebbero poi altri sette figli.

A sette anni, nel giro di tre giorni, Sabina perse la vista e l’udito. Era il venerdì santo del 1924. Sabina frequentava la seconda elementare nella scuola del paese e già bazzicava una sarta per imparare a cucire e a far la maglia. Era talmente sveglia che fin dall’asilo sapeva leggere e scrivere, e considerando quel che accadde dopo, fu una benedizione. A gennaio, dopo soli tre mesi in prima elementare, la maestra l’aveva promossa direttamente alla seconda.

Il lunedì della settimana santa del 1924, Sabina non si sentì bene. Il martedì mattina, la maestra la mandò a casa: piangeva per il mal di testa. Era meningite. «La sera del giovedì santo, dal letto di mia mamma, diedi un ultimo sguardo attorno. L’indomani mattina, venerdì santo, udii l’ultimo grido, seguito da una sbattuta di porta. Da allora niente più. Fu il buio pesto senza una voce».

È Sabina stessa che ricorda quel momento. Lo fece nel 1982, su richiesta degli amici della Caritas di Avezzano, con cui collaborava. Non lo faceva di frequente, né con facilità. In quell’occasione (ed eccezione) fece questa premessa: «Parlerò, come mi è stato chiesto, della mia esperienza personale, sperando che possa essere per gli amici invalidi, un incoraggiamento di più a realizzarsi, qualunque sia l’handicap che portano, e per gli amici in buona integrità fisica, un’occasione per meglio apprezzare il valore inestimabile dei doni che possiedono e trarne motivo di maggiore serenità nella loro vita».

Il montone della Marsica

In tante pagine scritte, per raccontare quel fatto che le cambiò la vita, Sabina ha lasciato tre uniche asciutte righe. «Mi riebbi nella luce azzurrina del Policlinico Umberto I a Roma. Tornai a casa dopo un mese, che appena percepivo la luce del giorno. Per oltre due anni mi arrangiai a fare tutto quello che facevo prima, non volendo accettare di essere ormai cieca e sorda, nonostante che i fatti mi dessero costantemente conferma della cruda realtà», ricorda Sabina. «Tuttavia questo mi servì da incentivo a non atrofizzarmi e per ingegnarmi anzi a fare di tutto per mantenermi su un piano di parità con le altre bambine». Testarda, coraggiosa, intraprendente, volitiva. O per dirla con le sue stesse parole, «con una tendenza insopprimibile all’attività ma di una taciturnità ostinata (non per nulla mi buscai il soprannome di Montone), laconica sempre nel dare le risposte strettamente necessarie, che non si aveva tempo per le chiacchiere oziose».
A soli sette anni, Sabina aveva già ben chiaro in mente un metodo, uno stile, un obiettivo. Non il rimpianto, non il risarcimento, ma la parità con gli “altri”. Da esigere ma anche da conquistare. I tre anni successivi trascorsero così, facendo l’abitudine alla novità. La sorella Loda ricorda come «mamma incoraggiò Sabina ad esercitarsi in tutte le sue attività e facesse di tutto per tenerla occupata»: si sbucciava da sola la frutta, lavava i piatti, cuciva vestiti per le sue bambole.
A scuola non ci tornò. In famiglia si comunicava con i gesti. Fino a quando Sabina stessa escogitò una soluzione: era passato poco tempo dalla disgrazia, le sorelle della mamma erano venute da Collepietro a far visita alla famiglia, Sabina capiva che in casa c’era qualcuno ma non poteva sapere chi fosse. Provò a dire tutti i nomi delle vicine di casa, ma il fratello con la mano faceva sempre il gesto negativo. Così lei disse a Ettore, il fratello maggiore, di portarle il quaderno di scuola e un lapis: tu scrivi i nomi e io ti tengo la mano. «Fu la scoperta di tutti i Cristoforo Colombo che lasciano la bella Europa del chiasso!», ricorda Sabina. «Questo fu il mezzo di comunicazione che mi servì per l’indispensabile, nonché per farmi tardare ancora a riflettere sulla mia situazione. Alla fine, però, dovetti dirmelo franco: ero cieca e sorda».

A dieci anni Sabina fu la prima alunna del neonato Istituto per ciechi Augusto Romagnoli, a Roma.
Ci andò in calesse, con papà e mamma. Imparò il Braille e il metodo Malossi. Come per Helen Keller, per Sabina l’educazione fece un miracolo, anche se Augusto Romagnoli preferiva dire che era lei, Sabina, ad essere «un miracolo di volontà». L’idea della riabilitazione precoce, tanto centrale alla Lega del Filo d’Oro, nacque così, da quell’esperienza diretta fatta da Sabina.

A 31 anni Sabina è una donna autonoma e indipendente nelle sue attività quotidiane: stira, cucina, lava i piatti, cuce, bada ai nipotini. È una donna del suo tempo, semplicemente: e questo rende ancora più straordinario ciò che è riuscita a fare.

Dalla sua casa di San Benedetto dei Marsi infatti Sabina inizia a scrivere lettere a tutti i sordociechi di cui sa e a cercare di scovare quelli di cui nessuno sa. I sordociechi a quei tempi erano «i grandi sconosciuti»: «sono sparsi per tutta Italia, nei Cottolenghi, in ricoveri inadatti o nelle famiglie», scriveva Sabina, «solo pochissimi di noi abbiamo il privilegio di vivere in una famiglia comprensiva dove siamo benvoluti e rispettati nella nostra personalità come individui normali e come membri partecipi attivi alla vita familiare. La stragrande maggioranza, purtroppo, è abbandonata a se stessa, nell’isolamento più assoluto, nell’immobilità e nella frustrazione che a lungo andare li portano all’atrofia fisica e psichica o, peggio ancora, specialmente i soggetti più vivi e intelligenti nell’impossibilità di intendersi con le persone che li circondano finiscono nell’esaurimento nervoso, nella disperazione e nella rivolta».

Sabina scrive in Braille, a mano, un puntino dietro l’altro, inventandosi un sistema di carta pieghettata per andare dritta. Spiega come stirare o come coltivare fiori, sprona ad attivarsi e a farsi nuovi interessi, poiché «che brutta vita è quella di pensare solo a mangiare, vestirsi e andare a spasso in automobile. E la mente dove la lasciamo? Senza attività mentale e spirituale io mi sento bell’e morta». Ci sono lettere per cercare un aiuto specifico per le singole persone, nel territorio in cui esse vivono, lettere che bussano alle porte di associazioni, enti, parrocchie, ma anche di persone vicine al sordocieco, volontari ante litteram, per spiegare la condizione, chiedere un aiuto, esigere un diritto. Cambia lo stile, cambia il contesto, ma le lettere degli anni Cinquanta non sono poi tanto diverse da quelle degli anni Novanta: si tratta sempre innanzitutto di avvicinare con pazienza infinita singole persone e «con tatto e prudenza avvicinarli ad altri interessi, dando loro modo di rendersi conto, indirettamente, che essere completamente cieco e sordo non è poi la fine del mondo».

Nel 1964 Sabina, dal suo paesino dell’Abruzzo, da sola ha creato una rete di 56 sordociechi. Ma non le basta ancora. Sabina ha ben chiaro che i sordociechi italiani hanno bisogno di una loro associazione: è certa che così sarebbero «rifioriti».

Siamo noi

La Lega del Filo d’Oro nacque ufficialmente il 20 dicembre 1964. Il nome, che Sabina ha scelto nel suo cuore da moltissimo tempo, «all’apparenza è fantastico, ma in realtà è il simbolo della buona amicizia, senza la quale l’uomo privo di vista e udito è paurosamente isolato, relegato nella torre del Conte Ugolino».

Sabina è la prima presidente. Mentre realizza un sogno, Sabina infrange un tabù: è la prima ciecosorda in Italia a stipulare un atto legale e addirittura ad assumere una carica sociale. Per poterlo fare, il notaio equiparò il caso di Sabina, che per la legge sarebbe stata incapace di intendere e di volere, a quello di uno straniero che necessita di un interprete. Una ciecosorda presidente è certo una scelta di altissimo valore simbolico, sorprendente e innovativa, ma Sabina ha sempre avuto la lucidità di non farne il tratto fondante dell’associazione, che piuttosto si è sempre esplicitamente caratterizzata per la convivenza e la corresponsabilità, a tutti i livelli, di più soggetti: i sordociechi e i loro amici, siano essi professionisti, volontari, familiari, benefattori. La novità però resta, stupisce e colpisce. A cominciare dagli stessi sordociechi, che trovano così in Sabina un ulteriore stimolo al coraggio di osare e prendere in mano la propria vita, diventarne protagonisti. È, come si direbbe oggi, una implicita lezione di empowerment.

Il resto è la storia della Lega del Filo d’Oro. Una storia corale, una storia di eccellenza, una storia innovazione e di dignità. L’ultimo documento contenuto nell’archivio privato di Sabina è una lettera del 19 agosto 1993. Sabina scrive al segretariato del Comitato delle persone sordocieche della “Lega”. È una lettera operativa, con uno scambio di informazioni organizzative in vista della Conferenza mondiale Helen Keller che quell’anno si terrà in Italia, a Numana. In un asciutto post scriptum, Sabina annota: «una precisazione: in buon italiano non si usa dire sempre “persone sordocieche”, perché si sa che i sordociechi sono persone». Quanta strada fatta… Ma per dirla con la frase con cui Sabina chiudeva ogni sua lettera, «buon coraggio, e avanti!».

Articolo pubblicato su vita.it e qui riproposto in parte per concessione dell’editore. È composto da estratti dal volume “Le mie dita ti hanno detto. Sabina Santilli e la Lega del Filo d’Oro” (2012), di Sara De Carli, con cui l’Associazione ha voluto celebrare la sua fondatrice.