Riflessioni semplici sulla plastica. Di Nicola Farina

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Nicola Farina, docente del dipartimento Arti Figurative presso il Liceo Artistico Edgardo Mannucci di Ancona.

Definire per un materiale che comunemente chiamiamo plastica un contesto difforme dalle funzioni a cui comunemente è destinato, ed antitetico ad esso, può risultare un sofismo intellettuale. Mentre la plastica è ben ancorata alla materia del mondo, attraverso la trasformazione oggettuale assume forme che esercitano azioni concrete a supporto della vita umana. L’uomo dall’invenzione di questo materiale ha tratto una infinita varietà produttiva che accompagna, aiuta, facilita, i propri bisogni operativi. Questa eterogeneità ed adattabilità della plastica ha determinato uno sviluppo generativo incontrollato ed ipertrofico in tutti i settori del fare e dell’essere, dell’uso illimitato e della cultura del prodotto artificiale. Progressivamente, il materiale plastico, nelle innumerevoli varianti delle proprie mutazioni ed applicazioni, ha intrapreso un destino estetico affiancando al concetto di buono (nel senso di economico e durevole) quello di bello (nel senso di immagine apparente). Probabilmente questa declinazione ha associato alla percezione comune della plastica quale presenza persistente e incorruttibile, la fascinazione del sublime accessibile. La bellezza eterna ed eterea alla portata di chiunque la desideri.
Tuttavia non si è voluto osservare il volto etico di questa rivoluzione che ha letteralmente colonizzato il nostro mondo, quello terraqueo nel quale agiamo e quello mentale nel quale elaboriamo le nostre azioni.
Forse siamo stati così presi dall’ebrezza del possibile che la plastica ci ha illuso di pretendere, da dimenticare la potenza visionaria dell’immaginazione. La forza del pensiero visionario spinta oltre i limiti della realtà contingente avrebbe potuto aprirci agli scenari estremi e sconvolgenti che oggi si palesano sulla nostra atrofizzata consapevolezza, ridestandoci dal sonno della ragione che genera mostri. Ed eccoci giunti al nostro tempo, mai preconizzato, nel quale si combatte aspramente la guerra fra natura ed artificio.
Sul tavolo della conflittualità irrisolta io penso la mediazione degli opposti contendenti possa essere esercitata solo dall’Arte. Perché se la Scienza può gestire processi di contrasto e di riduzione sostanziale delle plastiche che hanno inquinato il nostro universo, l’Arte può stimolare, attraverso una pedagogia del pensiero sensibile, una rigenerazione etica dei nostri costumi comportamentali. L’Arte attraverso la prassi creativa può insegnarci come ogni materia, che sia naturale o sviluppata dall’uomo, abbia una relazione profonda con i nostri sensi e si nutra di un comune senso originario: l’incipit dell’evento sensitivo, inteso come visione, come sorgente dell’idea che trova nella forma uno stato compiuto ed altrettanto espansivo.
L’evento artistico è una soglia di connessione ineludibile fra i territori della natura e dell’artificio perché non assume la responsabilità di conseguire obiettivi funzionali, ma di funzionare come libera espansione dell’idea; questo processo alchemico può innescarsi attraverso la purificazione della materia nel filtro primario dello spirito creatore dell’artefice, ovvero l’artista quale modello di riferimento, o qualunque individuo che ne colga ed accolga l’esempio morale.
Qui nasce una sorta di fenomenologia dell’essere interiore, non più scisso fra la propria dimensione spirituale e la propria esperienza. Educazione all’equilibrio, all’armonia, al rispetto ed alla convivenza, in cui il progresso, l’evoluzione della tecnica e della tecnologia, la produzione di nuovi materiali e l’introduzione di nuovi usi, possano convertire la caduta degradante del consumo compulsivo.
Questo credo possano averci lasciato in eredità le ricerche dei grandi artisti che si sono posti il quesito delle sorti dell’uomo, che hanno ricercato nei loro linguaggi codici di profonda umanità, indicandoci nell’estetica delle forme qualcosa in più della lettura filologica di appartenenze o eredità, dimostrandoci come sia possibile esperire vita nella materia inanimata, come accanto alla vita reale si possa immaginare una vita ideale, come lo stato inerte della materia artificiale possa annodarsi alla vita animata e generare nuova vita e come in questa vita terza dimori la speranza di un radicale cambiamento.
Quanto scritto è palese, se avvicinandoci prendiamo posto nello spazio poetico di Alberto Burri, attraversando i confini delle “Plastiche” nelle quali il contrasto con il fuoco piega, contrae, divarica la superficie che nell’atto di deformarsi assume forma, nuova identità, nuova esistenza.
O nelle prime opere dello scultore Tony Cragg, residui plastici di oggetti rigettati dal mare sulla battigia che vengono ricomposti in forme comuni del quotidiano, macro oggetti o macro immagini costituite da un mosaico di altri oggetti dalle forme e dai colori disparati che ci restituiscono concretamente le relazione gestaltica il cui principio recita “Il tutto è più della somma delle singole parti”, dunque la totalità del percepito è caratterizzata dalla somma dalle singole attivazioni sensoriali e da qualcosa di più che permette di comprendere la forma nella sua totalità, richiamandoci il principio della convivenza sociale, economica ed ecologica.
Ed ancora il ”Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto rappresentato dal simbolo grafico dell’infinito che modificato da un terzo anello diviene assioma di armonia praticabile fra cultura artificiale e natura, evolvendosi in molteplici rappresentazioni iconiche e performative (desidero anche citare l’importante “Italia riciclata”, la nostra penisola che accoglie una morfologia geografica di plastiche, rottami, scarti di cui l’Artista si riappropria e ne converte il senso);
Claes Oldemburg con oggetti replicati in scala aumentata e traditi dall’uso di materiali sintetici e plastici che ne determinano una forma cadente, assoggettata alla gravità, indicando la futilità del possesso e la fatuità del destino umano;
Pino Pascali con i suoi “Bachi da setola” apre l’universo artificiale all’ironia, al disincanto, non di meno ad una velata malinconia per un tempo aureo perduto in cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura. Christo con i suoi “Wrapping” ambientali in tessuto sintetico (nylon e poliestere) che determinando mutazioni ambientali fruibili o celando architetture storiche, conferiscono allo sguardo uno smarrimento metafisico; Anish Kapoor con le installazioni monumentali in pvc elastico che trasformano lo spazio in spazio contemplativo richiamando la nostra dimensione interiore attraverso la dialettica fra pieni e vuoti; Loris Cecchini che interpreta la relazione natura-scienza attraverso la tecnologia ed il ricorso a materiali sintetici che dilatano il microcosmo in un nuovo habitat dove artificio e natura convivono con assoluto equilibrio.
Non per ultima la Cracking Art che fa della plastica un uso ludico, multisensoriale, performativo con coinvolgenti disseminazioni ambientali.
Sono solo pochi esempi…
Ecco allora che la plastica, i materiali plastici, possono evolvere dalla destinazione d’uso e farsi attivatori della sensibilità, vettori per accedere a quella dimensione dello spirito che Kasimr Malevic chiamava “sensibilità non oggettiva”, che non si identifica con la forma apparente o con la funzione esplicita, ma con la capacità empatica dell’uomo di cogliere nelle realtà animate o inanimate un barlume del proprio riflesso, umanizzandole, volgendo l’inopportuno nell’opportuno necessario alla relazione ed alla conoscenza.