Collezione Design. Museo Omero. Di Fabio Fornasari

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Fabio Fornasari – Architetto museologo.

Due cose semplici.

La prima: il mio compito in questo momento è accompagnare il lettore a conoscere la Collezione Design che il Museo Tattile Statale Omero ha raccolto all’interno dei suoi spazi per essere osservati ed esplorati.
Un’ operazione semplice. Collezionare è una attitudine che ci contraddistingue come essere umani.
Ma il Museo Omero lo fa sempre con una attitudine particolare. Non si limita a raccogliere, a organizzare e a mostrare i suoi contenuti in uno spazio. Si è posto il dovere di leggere con le mani, usando la tattilità. Ma si possono anche guardare con la vista. Non è preclusa la visione.
Sono le prime semplici regole per approcciare qualsiasi progettazione per e con il Museo Omero.
Per chi legge abitualmente questa rivista è lapalissiano.
Ma questo mi serve per dire una cosa altrettanto semplice per chi conosce il museo.
Volutamente ho scritto che le cose vanno toccate ma che si possono anche vedere. Il ribaltamento della priorità è fondamentale perché ci mostra in estrema sintesi che questa attitudine ci parla del principio di democrazia sul quale si fonda il Museo Omero: tutte le persone hanno il diritto di leggere con le proprie capacità. La tattilità è nel titolo perché è manifesta volontà “mettere mano” alla consuetudine.
Toccare, guardare, ascoltare sono le prime tre azioni che parlano delle nostre principali porte della percezione e che sono alla base di qualsiasi dialogo tra l’Omero e il suo pubblico, i suoi pubblici. Questo è quello che potremmo definire il “plusvalore” del Museo e che ancora oggi Aldo Grassini e Daniela Bottegoni ci mostrano con la loro attività.

Una coscienza

Forse può sembrare poco utile per raccontare come è nato e come si è sviluppata la Collezione Design. Ma richiamando le parole di Enzo Mari “tutto quello che si fa è politica, la differenza sta nell’esserne coscienti oppure no”.
Enzo Mari è stato uno dei più importanti designer italiani. Tra tutti ha assunto il ruolo di chi ha coscienza, di chi è consapevole che Industrial Design non è stato semplicemente produzione di merce ma un progetto di democratizzazione della società.
Dal dopoguerra, la trasformazione da società agricola a società industriale ha cambiato l’Italia e gli italiani. Oggi potremmo dire che il risultato non ha raggiunto la perfezione, viviamo un’Italia che ha ancora tanto da fare, correggere. Se ne sono accorti gli stessi designer che hanno per primi combattuto per avere una società multisensoriale, che potesse uscire dalla tradizione, dalle consuetudini, per accogliere i nuovi bisogni emergenti.
Ma se siamo qui a parlare di una collezione di Design dentro a un museo dove le opere originali vengono toccate qualcosa è cambiato. E non è più una sola eccezione in Italia.
Proprio a causa del Covid ci si è accorti di quanta cura abbiamo bisogno, tutti e tutte.
I Musei hanno avuto il tempo di sviluppare una nuova coscienza per avvicinarsi al proprio pubblico che è stato nel frattempo distanziato. Questo è stato motore di nuove attenzioni.

Design come procedimento

L’apertura della Collezione Design si colloca in continuità con la politica del Museo Omero che è ormai accolta dalla Museologia.
Per chi scrive è stata anche una possibilità per mostrare anche cosa significa progettare una esperienza museale all’interno di un pensiero che parte dalla tattilità per coinvolgere tutti i sensi, il modo per mostrare su cosa ragiona il designer. Come e su cosa agisce nel momento in cui da pensiero astratto passa alla produzione di un elemento che è materia sensibile.
Non è sufficiente dire “vietato non toccare”, anche se è una giusta provocazione.
Porre al centro l’esperienza esplorativa dell’oggetto con le mani scompagina le proprietà, le grammatiche e i codici di scrittura di una esposizione. Lavora sull’ordinamento e sul percorso.
È un procedimento che riscrive le interazioni tra noi e le cose.
Tutto lo spazio diventa portatore di questa possibilità, di questa priorità e per chi frequenta il museo è la necessità. È la regola che definisce il design dell’allestimento, definisce le interazioni con lo spazio, le relazioni tra le persone.

Il termine design

“Con il termine design si indica l’attività di progettazione di oggetti, prodotti o strumenti, domestici o di lavoro, che possono essere realizzati in maniera artigianale o industriale, dove gli aspetti tecnici convivono con quelli estetici (design = progetto)”.
Questa è un primo passo di Andrea Branzi pubblicato sul sito della Treccani
È la sola prima parte di un testo che procedendo ci mostra molto di quanto pensiero ruota intorno al Design inteso non come sola produzione di oggetti ma anche di pensiero intorno agli oggetti in relazione alla società. Parlare, mostrare le cose in relazione alle interazioni con la società è cosa anch’essa necessaria per comprenderla.
Interessante notare il richiamo alla dimensione estetica. Il Design nel nostro parlare è normalmente visto come un mondo a parte delle cose. Non l’insieme delle cose: ma alcune tra le altre, sono quelle che fanno di quel connubio tra espressività (estetica) e tecnica (processo di realizzazione) una regola.
La Collezione che esponiamo lavora a partire dal riconoscimento di questo connubio.
Esistono musei senza collezione, musei che mostrano processi, usano la potenzialità del pubblico, il loro portato emotivo, messo in una certa relazione nello spazio per generare l’esperienza che si fa esposizione, per sé e per gli altri.
Sono questi i musei relazionali che procedono attraverso quella dimensione immateriale che si lega al Design dell’esperienza, al Design Relazionale e che coinvolge la persona immersa nella società.
Ma la nostra Collezione si colloca nel design di prodotto. Questa precisazione è importante perché Design è una parola ombrello che copre tanti significati.
La nostra Collezione infatti parte da principi molto concreti che identificano il Design come quella collezione di oggetti che un tempo assumeva il valore identitario di Made in Italy e che è rappresentato nella sua completezza dal premio Compasso D’oro.

Compasso d’Oro

Il compasso d’Oro prima ancora che essere un premio è un riconoscimento che permette all’Associazione per il Disegno Industriale-ADI di valorizzare la ricerca del design italiano.
L’ADI è stata fondata nel 1956 a Milano e conta tra gli associati le aziende, i designer, i giornalisti, studiosi e più in generale chi si occupa di Design.
È un riconoscimento considerato come il più importante in assoluto.
Per questo motivo lo prendiamo come faro per cercare nel mondo della produzione di oggetti nel tempo quelli che riteniamo più utili, per fare esperire la dimensione estetica a fianco di quella tecnica dell’oggetto di design. Il compasso d’Oro è l’Oscar del design.
Illumina tutta la produzione degli oggetti prodotti dall’azienda e dal designer. Per questo motivo non tutti gli oggetti esposti sono oggetti premiati direttamente dal compasso, ma sono comunque oggetti illuminati da questa attenzione. La motivazione si lega a quanto detto precedentemente: per noi è necessità aggiungere la tattilità come cifra nella selezione. Se l’essenziale è invisibile all’occhio, la scelta dell’oggetto essenziale, quello da mettere in collezione, da esporre e da esplorare deve prima di tutto essere scelto dalla mano che tocca.

Iconico

Questa è una parola molto usata da chi parla di Design. Una parola che come altre non è sempre amata perché usata troppo e a sproposito. Ma per noi è il segnale dell’attenzione che quell’oggetto ha ricevuto tra la popolazione degli oggetti. È segno distintivo di quell’oggetto.
La dimensione iconica di un oggetto non è quindi solo visiva, ma sono proprio le retoriche intorno alla sua storia che lo rendono importante per noi.
La Collezione Design raccoglie oggetti illuminati direttamente o indirettamente dal Premio Compasso d’Oro e che nella comunicazione critica intorno al design viene definito iconico, un punto di passaggio fondamentale.

32 variazioni

Nasce così la collezione, la scelta degli oggetti.
Il numero delle cose si ferma a trentadue, un numero apparentemente casuale ma che serve per aprire una parentesi concettuale di natura musicale.
In musica ci sono due lavori di due musicisti fondamentali che se fossero designer di prodotto verrebbero definiti iconici. Parlo di Johan Sebastian Bach e di Ludwig Van Beethoven.
Entrambi sviluppano due opere che ci mostrano trentadue variazioni. In estrema sintesi, le Variazioni Goldberg di Bach esprimono una opinione sull’idea di come il tempo, riempito dei suoni, genera ritmi, pieni, vuoti che compongono delle architetture sonore. Nelle Variazioni Diabelli di Beethoven è la dimensione più emotiva, emozionale, legata al sentimento indagato dal pianismo che ci parla della variazione come dimensione fondamentale per tenere insieme noi stessi, per includerci non tra opposizioni ma tra continue modificazioni.
Con questa Collezione, analogamente alle due serie di Variazioni vogliamo esporre le “gradazioni” di come abitiamo il mondo attraverso l’uso delle cose. Tutti gli oggetti esposti sono piccole “architetture” fatti di ritmi, pieni e vuoti, ma sono anche testimoni di emozioni, di sentimenti.
Quante sedie conosciamo o abbiamo provato? In collezione esponiamo una variazione di oggetti, una variazione di sedute: a onda in cristallo, a sacco, a forma di bocca, a forma di cavallo a dondolo, a forma di cane. Tutte variazioni non solo di tecnologie, ma anche di sentimenti verso la vita. Questa è la Collezione Design: una opinione sulle variazioni del nostro modo di occupare lo spazio, usarlo con le cose, nel tempo.

La scatola

Tutti gli oggetti che acquistiamo sono contenuti, venduti, trasportati all’interno di scatole.
I contenitori non solo hanno il compito di proteggere il prodotto durante il trasporto per la sua distribuzione, ma sono spesso veicolo di comunicazione, narrazioni, racconti intorno alla cosa: lo contestualizzano sul mercato degli oggetti e nell’immaginario che il prodotto va ad alimentare.
Un esempio sono le confezioni degli oggetti disegnati dall’azienda ALESSI con l’immagine di Alessandro Mendini, designer e teorico del design. La scatola è un organo di comunicazione che mette in “copertina” il viso del designer e affianca a quello i pensieri intorno al Design in generale e al prodotto in particolare.
Altro esempio arriva anche dai primi anni del duemila: la casa svedese di mobili a basso costo IKEA è diventata famosa per i suoi fogli di istruzione che accompagnano la confezione e che hanno assunto un forte valore comunicativo, identitario.
La scatola è quindi non solo un elemento di protezione ma diventa la dimensione identitaria per la comunicazione del prodotto, per istruire al suo uso prima che venga veduto e toccato, prima di riconoscere la sua identità immaginativa e simbolica.
Riconfezionare gli oggetti, costruire intorno alle cose selezionate una nuova scatola che racconta l’oggetto, lo espone e suggerisce come usarlo è il primo pensiero.
Il design della scatola si lega a tre cose.
La più importante è la fustella, il ritaglio della materia che scava l’icona dell’oggetto, la ritaglia come assenza visiva della cosa che diventa presenza tattile, confine e contorno da toccare.
Questa è una attitudine raccolta entrando dall’ingresso principale alla mole, l’ingresso carraio che passa dal piccolo ponte con il portale realizzato nella bianchissima pietra d’Istria.
Risalendo il corridoio carraio, voltato in mattoni, si nota davanti a noi che il tempietto dedicato a San Rocco è perfettamente ritagliato dal volume della galleria. La galleria sembra essere stata ritagliata proprio per mostrare e sfiorare con la vista la cosa, come se invitasse a osservare con una vista che si fa tattile.
Sul cartone della comunicazione, alla fustella si affianca una stampa in nero a rilievo, che isola alcune caratteristiche dell’oggetto in una chiave iconica, ne mostra il funzionamento e la sua variazione geometrica, funzionale.
Nello stesso tempo supporta il racconto che Chiara Alessi ha scritto per ogni oggetto in mostra.

La relazione e l’interazione tra le scritture

“Tante care cose” è il titolo di un volume di Chiara Alessi. Leggendo questo suo lavoro si comprende che per lei il Design non è solo un prodotto ma l’ambiente di vita all’interno del quale è cresciuta, si è sviluppata come osservatrice, raccoglitrice e spigolatrice delle voci intorno al design.
È la persona perfetta per un racconto da sviluppare intorno alla scatola, sulle pareti della confezione. Non sono solo le storie ma la sua attenzione, la sua leggerezza che riteniamo molto utile per ridisegnare la scatola che contiene l’oggetto.
Le scatole non sono solo spiegazione, ma piacevoli letture che si sviluppano sulle confezioni che mancano di chiusura frontale ma che contornano l’oggetto.
Davanti all’oggetto, in chiave segnaletica ci sono le tavole in braille, il primo oggetto di design che si ripete trentadue volte, sempre apparente uguale a se stesso.
Come la comunicazione che diventa l’oggetto che riconfeziona tutte le “care cose” esposte, così il braille è il foglio di istruzione per chi non vede.
A differenza del testo di Chiara Alessi, questo testo istruisce alla tattilità, a come affrontare il prodotto, cosa cercare nella sua esplorazione. La sua descrizione richiama i contenuti condivisi con il testo in rilievo ma scritto in nero. Ma il suo compito è quello di aiutare l’esplorazione nella formazione di quella che la Montessori chiama conoscenza stereognostica: è l’immagine tridimensionale, multisensoriale che non solo il cieco produce nella propria mente dell’oggetto esplorato con la percezione aptica, ma è la tattilità immersa nel corpo.
Questi due testi sono leggibili in modo differente. Con gli occhi il testo di Chiara e con le mani il testo in Braille. Sono due testi differenti che pongono subito la questione relazionale: se il vedente vuole leggere il testo in Braille può farlo traducendo con la vista lettera per lettera o chiedere a un non vedente di farselo leggere. Il museo è affrontabile in autonomia, come vedremo, ma è nella relazione tra persone che interagiscono con canali differenti che l’esperienza si fa completa.

Autonomia

Il Museo è nato con l’idea che il percorso espositivo possa essere visitato in completa autonomia.
Questa condizione è agevolata da due elementi: dalla struttura a Bancone con un lungo banco che come un anello attraversa tutto lo spazio e da una tecnologia digitale innovativa che monitora e dirige la posizione del visitatore immerso nello spazio.
Gli oggetti sono prevalentemente disposti lungo questo bancone che richiama lo showroom, lo spazio commerciale dove posso acquistare gli oggetti esposti ma riconfezionati all’interno della comunicazione di cui si è parlato; una comunicazione che ruota intorno alla tattilità.
Il bancone è un dispositivo riconoscibile da tutti che mostra linearmente gli oggetti. È sinuoso nella sua forma. Questo permette una migliore possibilità per le persone di ricordarsi la disposizione delle cose.
Ma fondamentale e innovativo è il percorso in autonomia permesso dall’uso delle tecnologie digitali: due bracciali indossati dal visitatore permettono di essere guidati lungo corridoi virtuali verso gli oggetti da toccare.
Arrivati all’oggetto partono due tracce sonore: una in ambiente e una solo per chi indossa il sistema.
La prima traccia racconta la biografia sonora dell’oggetto. Realizzata insieme all’Artista dei suoni Paolo Ferrario, ricostruisce intorno all’oggetto un ideale ambiente sonoro che non si limita a raccontare in modo didascalico l’oggetto, ma si interroga su cosa potrebbe avere ascoltato della vita intorno ad esse. Si domanda cosa potrebbe avere sognato l’oggetto in chiave sonora. È una trama sonora poetica e artistica.
Il secondo audio non è in ambiente ma in cuffia; una cuffia a conduzione ossea, che non occlude il padiglione auricolare e che permette di ascoltare la lettura del testo di Chiara Alessi.

Fuori testo, fuori tutti

In corso di esecuzione del lavoro è stata realizzata ad iniziativa del Museo, su una idea di Andrea Socrati, una stanza per la neurodiversità.
Intorno a questa idea è stato possibile generare un ambiente protetto, interamente riletto in chiave Design. La necessità di isolare chi ne avesse bisogno anche solo temporaneamente, la necessità di venire incontro a chi ha necessità di stare in un ambiente protetto, ci ha permesso di sperimentare uno spazio disegnato, uno spazio che è immagine della vita del ragazzino o della ragazzina che si isola per ritrovare il proprio equilibro.
È il fuori tema che prende il titolo da un lavoro pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1996, dove Carlo Antonelli intervista una generazione di giovani italiani nelle proprie camerette, “una generazione in camera sua”. Ecco che una necessità una intuizione diventa occasione per portare altri oggetti parenti dei trentadue esposti, altri compassi d’Oro come l’abitacolo di Bruno Munari, prodotto emblema dello spazio liberato dai genitori del bambino e della bambina, il migliore dei modi per uscire da questa scrittura.