L’arte e il pensiero ecologico sul paesaggio. Di Stefano Verri

Stefano Verri, storico dell’arte

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Mai come in questo periodo così difficile torna attuale il tema del rapporto tra l’uomo e la natura. Una relazione dinamica e complessa che ha visto nella progressiva emancipazione tecnica dell’essere umano, la necessità dell’altra di essere salvaguardata, conservata e protetta, in un’inesorabile inversione dei ruoli che ha visto l’uomo dall’essere vittima di forze incontrollabili ad essere il primo carnefice della terra che lo nutre, dell’ecosistema di cui è parte integrante. 
L’artista – nel senso più lato del termine – ha raccontato e tutt’ora racconta attraverso la sua sensibilità (e ovvia parzialità), questo progressivo mutamento di prospettive, questo lento processo di cambiamento che trasforma la percezione umana della natura e di conseguenza del paesaggio. Proprio quest’ultimo è l’elemento “figurabile” per eccellenza, è quella dimensione percettiva della natura che si acquisisce, come giustamente nota Raffaele Milani, per differenza, separandolo dal concetto scientifico di natura e da quello politico di territorio. Il paesaggio è appunto ciò che della natura colpisce emotivamente l’uomo diventando oggetto di un’azione soggettiva di interpretazione e di immaginazione. 
La grande stagione del paesaggio romantico ci porta definitivamente fuori dalla dimensione quieta e rassicurante del mito o dalle atmosfere ordinate e sognanti dei secoli precedenti, per mostrarci la straordinaria bellezza dell’improvviso e dell’imprevedibile in cui si manifesta il divino. Così nel Naufragio della Speranza (1824), titolo tanto ambiguo quanto emblematico di un dipinto di Caspar David Friedrich (1774–1840) conservato nella Kunsthalle di Amburgo in cui il grande pittore tedesco rappresenta una montagna di ghiaccio – unica e vera protagonista della rappresentazione – mentre inghiotte una nave, che confusa e quasi invisibile, è relegata in secondo piano sulla destra. Una rappresentazione dell’inarrestabile potenza della Natura cui malamente soccombe l’artificio di un uomo intruso, dando corpo e anima quel senso del Sublime teorizzato qualche anno prima da Kant e Schopenhauer. 

La presa di coscienza su quella che oggi, quasi all’unanimità, chiamiamo Antropocene dalla felice intuizione di Paul Jozef Crutzen, ovvero di quell’epoca in cui l’uomo interferisce globalmente – e in negativo – con l’ambiente che lo circonda, sarà uno dei vessilli delle ricerche artistiche che si sviluppano nella seconda parte del Novecento a mutare la percezione stessa dell’artista trasformandolo da colui che rappresenta e si stupisce, a colui che sente la necessità di intervenire. Una nuova coscienza ecologica che dagli anni Sessanta si esprime nella Land Art in cui il paesaggio diventa palcoscenico ma anche elemento costitutivo dell’opera stessa, nell’Arte Povera in cui la natura è il bacino da cui attingere nuovi materiali artistici o nella poetica di Joseph Beyus, forse un degli esempi più stringenti, il cui fulcro è proprio la ricerca di una nuova armonia tra uomo e ambiente (GILLO DORFLESS, FRANCESCO POLI).
Le poetiche riassumibili nella Land Art nelle sue varie declinazioni ed accezioni (Earth Works, Earth Art, Ecological Art), rappresentano il punto di svolta nella riflessione sul rapporto/ «dibattito» tra arte e natura distanziandosi nettamente dal senso estetizzante e metafisico del Sublime per tornare ad una dimensione umana che si preoccupa di ambiente, sfruttamento delle risorse e sostenibilità (LUCY-SMITH). Un’attenzione nuova che porta ad una serie di interventi che sono passati alla storia da quello di Michael Heizer (n.1944) che scava, nel 1970 in Nevada (USA) con dinamite e bulldozer una trincea di 457 metri creando una delle prime opere di questo genere, il Double Negative, a quello di Robert Smithson (1938-1973) che nello stesso anno interviene artisticamente nel Grat Salt Lake nello Utah (USA) creando la sua Spiral Jetty su un territorio sfruttato, compromesso e poi abbandonato dall’uomo per rendergli in qualche modo giustizia consegnando alla memoria un molo a spirale fatto di rocce basaltiche alghe e cristalli di sale, elementi naturali e presenti in situ che l’artista ha riorganizzato in modo estetico. Se questi due esempi possono essere considerati permanenti – fatta eccezione per la naturale consunzione a cui sono soggetti perché esposti alle forze della natura, aspetto che è parte integrante dell’opera -, altri hanno scelto di operare in modo meno invasivo, realizzando opere fruibili solo per un certo periodo, come Christo (1935-2020) e Jean Claude (1935-2009) che nella loro Sourrounded Islands (1980-1983) hanno circondato per 11 giorni con 603.870 metri di tessuto rosa undici isole della Biscayne Bay di Miami (USA) coprendo parte della spiaggia e del mare circostante, creando un intervento artistico memorabile che valorizza il paesaggio e in cui la preziosità estetica non intacca la qualità etica dell’operazione considerato che la preventiva verifica dell’impatto ambientale sulle isole era una parte integrante del progetto. 
Interventi diretti, effimeri o permanenti, che hanno per loro natura la necessità di agire in modo netto e diretto sul paesaggio modificandone la morfologia in base ad un predeterminato pensiero estetico.

Se accettiamo il paesaggio, l’elemento “figurabile” della natura giustappunto, come uno spazio simbolico, questo si presenta come uno straordinario deposito di memorie collettive di cui la sensibilità artistica è stata e resta un testimone privilegiato. Questo il caso di Mario Giacomelli (1925-2000), che nella sua lunga carriera racconta spesso e con straordinario lirismo il lavoro dei campi, la vita contadina, il paesaggio, la terre trasfigurate in elementi astratti dai bianchi e neri quasi assoluti che rendono il suo lavoro così unico ed affascinante. Ma accanto al valore artistico, alla genialità ed all’unicità dello scatto, alla sensibilità dello sviluppo, va aggiunto il valore documentario della sua opera, la sua personale e cosciente testimonianza dei cambiamenti morfologici che i “suoi” paesaggi hanno subito nel tempo. Emblematica da questo punto di vista la piccola serie di fotografie che Sergio Anselmi (1924-2003), storico dell’economia, pubblicò, commentandole, nel 1978 a corredo del suo articolo Paesaggio agrario e territorio: la distruzione di una collina in nove fotografie di Mario Giacomelli. 1955-1977 («Proposte e ricerche» n.2, 1978) – oggi conservate al Museo di Storia della Mezzadria “Sergio Anselmi” di Senigallia – in cui Giacomelli testimonia appunto i cambiamenti subiti dalla collina nel corso di 22 anni. «Qui le fotografie di Mario Giacomelli diventano strumento per ricondurre l’attenzione sulla necessità di tenere conto che la terra è risorsa non riproducibile, e Giacomelli le ha affidate all’amico Anselmi consapevole di avere già lui sintetizzato, con la sua arte, il discorso che lo storico avrebbe fatto, ma vuole che le sue fotografie prendano la voce della narrazione storica, quasi la suggeriscono.» (ADA ANTONIETTI)

Sul solco tracciato dai maestri nuove generazioni di artisti, sul passare del millennio, sentono ancora il dovere sociale di mettere al centro del loro lavoro la natura, l’ambiente, il paesaggio, concentrandosi sull’οἶκος, sul proprio habitat. Oikos è anche famiglia, casa, unità base di una società ed è l’elemento attorno al quale ruota la poetica di Giovanni Gaggia (n.1977). Il suo Oikos è un casolare nelle colline di Pergola (PU), un luogo che dal 2008 è un crocevia di artisti, performer, critici, scrittori o semplici appassionati d’arte. Ma la Casa, o meglio CasaSponge, è propriamente un metaprogetto artistico, un collettore di idee dal carattere anfibio: una casa abitata che allo stesso tempo si apre osmoticamente all’esterno ospitando progetti che vengono pensati elaborati e realizzati in modo condiviso, volti a lasciare memoria, a segnare la casa e il paesaggio circostante. Ciò che è interessante è che questo metaprogetto nasce da un profondo cambiamento interiore dell’artista, dalla performance Come Santo Francesco sanò un lebbroso del 2008, che segna l’apertura di CasaSponge, un’azione di purificazione ispirata al Capitolo XXV dei Fioretti di San Francesco, in cui l’artista scavando alla base di un ulivo estrae un cuore ricucito, e lo lava. 
Dal paesaggio, dall’elemento naturale, scaturiscono le emozioni che segnano il legame profondo con le proprie radici, con i luoghi dei nonni paterni. Un rapporto fisico con la terra e con il paesaggio attorno alla Casa.