Uguaglianza, questa sconosciuta. Di Vito D’Ambrosio

Vito D’Ambrosio – Già magistrato e membro del CSM.

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L’articolo 3 della Costituzione è dedicato all’uguaglianza, e non è facile da interpretare a fondo, oltre una lettura banale, che lo farebbe diventare fondamento di un ottuso egualitarismo. Nel testo si legge che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” Si ricordi l’insegnamento di don Milani sulla ingiustizia del fare parti diseguali tra eguali, ma anche parti uguali tra diseguali (se, in una mensa scolastica, si offre la stessa porzione di zuppa a tutti i bambini, senza tenere conto della diversità del loro stato di nutrizione, si commette una innegabile ingiustizia, meno lampante ma forse più bruciante nella sostanza). Questo articolo ha una grande importanza, sia dal punto di vista giuridico-costituzionale, sia anche da quello psicosintetico.
Innanzitutto va notato che la sua prima parte (comma), afferma il principio di eguaglianza nella sua più ampia accezione, che supera anche una interpretazione letterale della norma, nel punto in cui sembrerebbe limitarsi soltanto ai cittadini, e infatti, la giurisprudenza della Corte Costituzionale da tempo ha ritenuto che il principio di uguaglianza si applica anche ai non cittadini, residenti (cfr. ampia citazioni nella sentenza n.186/2020); inoltre anche il richiamo alla razza, obsoleto dal punto di vista scientifico, si rese e resta necessario dopo l’emanazione delle leggi per la difesa della razza nel 1938 da parte del regime fascista (per ragioni analoghe, e come ostacolo al rischio di una ripetizione degli orrori della seconda Guerra mondiale, infatti lo ritroviamo sia nella Dichiarazione universale dei diritti umani adottata dalle Nazioni Unite nel 1948 sia nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, sia nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottata nel 2000 e trasfusa nel trattato di Lisbona del 2007.
Al primo segue un secondo comma, che da un lato riconosce l’esistenza di ostacoli ad una effettiva eguaglianza e dall’altro impegna la Repubblica al superamento di questi ostacoli. L’analisi di questo secondo comma ha impegnato lungamente gli interpreti e gli operatori del diritto, e, secondo me, deve essere ben calibrata; vale quindi la pena di darne conto, sia pure brevemente.

Il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, in sostanza, si allarga su un doppio piano. Sul primo riconosce espressamente che nella Repubblica il principio di eguaglianza, proclamato solennemente appena un rigo sopra, non riesce a svolgere in pieno i suoi effetti, cioè confessa che in Italia non esiste (ancora?) una vera e generale eguaglianza tra i cittadini. Dopo questo primo piano, l’articolo si spinge su un piano ulteriore, affidando alla Repubblica il compito di eliminare gli ostacoli che impediscono l’eguaglianza stessa, e termina riconoscendo un ruolo privilegiato dei lavoratori, tutti, nell’organizzazione del Paese.

Lasciando da parte la pretesa, avanzata specialmente dagli operatori del diritto nei primi decenni di vita della Costituzione, che questo comma fosse una specie di Supernorma, che dovesse condizionare l’intera opera di interpretazione e applicazione costituzionali – tesi respinta dalla Corte Costituzionale, che non riconosce una graduazione di principi nella e della Costituzione, resta tuttavia l’importanza della doppia dichiarazione, la prima fondamentale per la constatazione della distanza tra teoria e realtà in tema di eguaglianza, e la seconda per l’imposizione, autoimposizione sarebbe più corretto, alla Repubblica del COMPITO di intervenire per eliminare gli ostacoli. Questo comma, con le sue implicazioni, rapidamente accennate, segna una innegabile differenza con testi analoghi e contemporanei di altri Paesi democratici dell’Occidente. E tanto basta, in questa sede, dal punto di vista giuridico.

Resta da esaminare, invece e infine, il tema del COMPITO. Che significa affidare, o autoaffidarsi il compito di costruire un ponte tra teoria e realtà? Come si può eseguire il compito in ambito giuridico? A chi è affidato il compito, e da chi? Questo grappolo di domande investe e complica il tema, ma le risposte non mi sembrano (molto) difficili.

Cominciando dal principio, è chiarissima l’identità del soggetto cui è rivolto l’invito ad assumersi il compito specificato dall’articolo. Il soggetto, dalla lettera del testo, è la Repubblica; ma la Repubblica è una identità totalmente vuota ed astratta, se non la riempiamo con tutti i soggetti che la compongono; tra questi soggetti rientriamo tutti noi, ed ognuno di noi, perché la Repubblica è l’insieme più ampio citato in numerosi passi della nostra Costituzione, a cominciare dal suo titolo “Costituzione della Repubblica italiana”.
Quindi in sostanza il compito è stato assegnato ad ognuno di noi, e l’adempimento di questo compito è richiesto dalla Costituzione ed è un’importante concretizzazione del nostro dovere di cittadini di questa Repubblica. Quanto al concreto comportamento, non c’è bisogno di particolari spiegazioni: basta intervenire ogni volta che ci troviamo di fronte a casi di violazioni del principio di eguaglianza, per chiedere, anzi pretendere, la modifica della situazione in senso coerente con il precetto costituzionale. Quanto alla domanda sulla legittimazione di chi ci chiede l’intervento, la risposta, semplice, è che la pressante richiesta proviene da, e coinvolge, la volontà.

Va notato, infine, che il collegamento delle due parti dell’articolo può leggersi come esempio concreto delle radici cultural-politiche che sono alla base della Costituzione. Il primo comma, infatti, trova origine e fondamento innanzitutto nella versione più classica delle teorie liberali, ma anche in parecchie letture dalle riflessioni marxiste, e non manca nemmeno nelle più moderne versioni della dottrina cristiana, specie nella sua versione personalistica, nata dagli studi di alcuni filosofi francesi, in particolare Maritain e Mounier.
Ma il secondo comma appartiene (quasi) esclusivamente) e si riferisce agli approfondimenti social-politici proprie della dottrina di Marx, e di quelle derivate.

Queste affermazioni vanno confrontate, ultima novità, con l’enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti”.
Il Papa, venuto dalla” fine del mondo”, secondo la sua stessa dichiarazione, sta profeticamente tentando di ritrovare tra le fondamenta della Chiesa, intesa come struttura ordinamentale e gerarchica, le parti del messaggio cristiano che dovrebbero dare ragione della presenza stessa di una Chiesa. In questa sua fatica trova sempre più l’ostilità accanita di quanti nelle strutture ecclesiastiche attuali si trovano bene, e volgono altrove testa e sguardo quando la struttura scricchiola, causa del marciume che ne intacca la solidità. Paradossalmente, si è detto, questo Papa – piace più ai non credenti che ai credenti cattolici (o sedicenti cattolici), affermazione per fortuna non rispondente alla verità, spero, pure se all’interno della Chiesa gerarchica è assai meno apprezzato che in quelle realtà ecclesiali vicine al mondo dei meno fortunati, ampiamente presenti nelle due ultime encicliche di Francesco, la “Laudato sì” e appunto la “Fratelli tutti”, che, per i credenti che sono con Francesco, frutto di una serena ed approfondita “contestualizzazione” del messaggio di Gesù.

Sul tema, voglio ricordare il pensiero di Papa Francesco che leggiamo nella quarta di copertina dell’edizione della Libreria Editrice Vaticana:” Vieni, Spirito Santo! Mostraci la tua bellezza/ riflessa in tutti i popoli della terra, / per scoprire che tutti sono importanti, / che tutti sono necessari, che sono volti differenti/ della stessa umanità amata da Dio”.
Assolutamente notevole la sintonia su un punto così qualificante tra la nostra (e non solo) Costituzione e una lettura proveniente dalla più alta autorità ecclesiastica in ambito cattolico. Senza voler, con questa affermazione, superare la innegabile natura neutrale sul punto della nostra Carta fondamentale.