Parte terza – Tre modalità di relazione tattile. Di Giancarlo Galeazzi

Giancarlo Galeazzi, docente emerito di Filosofia all’Istituto teologico marchigiano della Pontifica Università Lateranense

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Proprio sul piano esistenziale, il tatto offre motivi di riflessione, tant’è che da Maurice Merleau-Ponty a Hans G. Gadamer, da Jacques Derrida a Jean-Luc Nancy, da Luce Irigaray a Umberto Galimberti a Aldo Masullo (*), il pensiero contemporaneo (in particolare la filosofia fenomenologica e quella analitica) ha riservato una crescente attenzione all’organo del tatto “come organo di senso che ci orienta nelle relazioni sociali”. Ma qui lo prendiamo in considerazione non come “concetto antropologico fondamentale elaborato in seno al movimento fenomenologico” (o a quello analitico), ma come categoria che può aiutare a leggere l’attuale situazione. Pertanto consideriamo il tatto nella triplice configurazione di contatto, contaminazione, contagio, considerati come tipiche espressioni della vita interpersonale e sociale, nonché artistica. In ogni caso, le tre modalità hanno un carattere ambivalente, in quanto si attribuisce loro un significato negativo e un significato positivo: quello negativo è stato prevalente in passato e si è accentuato oggi in presenza della pandemia da “covid 19”; quello positivo ha faticato a farsi strada ma ha finito coll’essere riconosciuto: in senso letterale e metaforico. Ecco, le tre modalità.

Del contatto si danno due accezioni: quella negativa è da riferire ovviamente ai contatti infettivi, nonché ai contatti molesti, invadenti, manipolatori; quella positiva fa invece riferimento alle normali relazioni quotidiane e a contatti rispettosi, empatici e fecondi. In particolare, la positività tattile si ha quando l’atto del toccare non s’identifica con l’atto dell’afferrare, bensì con quello del convergere. Si può allora dire che il contatto è negativo se ha la pretesa di afferrare l’altro, mentre è positivo se si traduce in un procedere insieme. Pensiamo, solo per fare qualche esempio in riferimento alla “mano”, al significato positivo di atteggiamenti come quelli di “dare la mano”, di “stringere la mano”, di “prendere per mano”, di “tenersi per mano”, di “accarezzare con la mano”: ebbene, questa “etica della mano” (così mi piace denominarla) costituisce un paradigma relazionale fondamentale per la vita comunitaria. Ma può accadere di essere costretti di farne a meno, come nel caso odierno del “covid 19”, perché proprio la mano può rischiare di infettare; in tal caso non solo evitiamo una serie di comportamenti fisici, ma (occorre sottolinearlo) ci priviamo pure dei significati simbolici che essi veicolano e che (in riferimento ai segnalati esempi della mano) sono rispettivamente: accoglienza, accordo, accompagnamento, amicizia, affetto, e non c’è bisogno di ricordare quanto la “simbolica” sia essenziale per l’uomo e la sua vita sociale (civile ed ecclesiale).

Anche la contaminazione presenta una duplice e antitetica valenza: quella negativa, che è già presente nell’uso comune della parola, sta a indicare una indebita commistione, una mescolanza inquinante, insomma qualcosa che fa perdere la purezza, per cui bisogna guardarsi dal contaminato (sul piano etnico il passo è breve verso il razzismo). A questo significato negativo si va oggi affiancando un significato positivo, conseguente al pluralismo etnico ed etico, cultuale e culturale, accentuato dalla globalizzazione, che favorisce la consapevolezza non solo della inevitabilità della contaminazione, ma anche della sua pregnanza assiologica. Così la “ibridazione” si configura come processo inevitabile e auspicabile, e, di conseguenza, parole come “meticciato” e “creolizzazione” non hanno più (in genere) un carattere dispregiativo: venuto meno il significato letterale legato al colonialismo (almeno un certo colonialismo è stato superato), il termine è entrato nell’uso per indicare fertili forme di complessità culturale del nostro tempo, addirittura da valorizzare.

Allo stesso contagio si deve riconoscere una duplice accezione. Anzitutto, quello più diffuso, è letteralmente un significato negativo, in quanto fa riferimento alla sua dimensione infettiva, per indicare malattia, epidemia, pandemia. Si può invece riconoscergli un significato positivo, se – dal punto di vista educativo, morale e spirituale – produce un miglioramento, favorisce la crescita o, addirittura, è all’origine di valide scelte di vita. Se l’esempio non si traduce in modello, se la testimonianza non diventa proselitismo, siamo di fronte a forme di contagio positivo. I comportamenti o gli stili di vita di santi ed eroi sono contagiosi in senso positivo, e quando ci riferiamo a santi ed eroi non pensiamo solo a quelli segnalati nei libri di storia e di agiografia, ma anche, e soprattutto, a santi ed eroi anonimi: gli eroi della vita quotidiana, i santi della porta accanto. Con riferimento all’attuale momento caratterizzato dal “covid 19”, è da dire che le misure igieniche da adottare privano le relazioni interpersonali di ciò che è personale, addirittura identificativo. Certamente, l’emergenza sanitaria giustifica le misure, che sono adottate per preservare dal con-tagio; tuttavia rimane il fatto che si percepisce tutta la loro invadenza, e si avverte la nostalgia del con-tatto, tant’è che, in maniera più o meno acuta, ne riscopriamo la necessità, che è certamente fisica, ma non solo.

Ferme restando – in caso di infezione – le regole per prevenire e per preservare, è da dire che non si deve giungere alla indebita equazione contatto=contagio, e che occorre insistere sul fatto che il contatto interpersonale è relazione umana per eccellenza, anche quando si è costretti a sospenderla in presenza di una situazione infettiva. Nelle restrizioni che le autorità hanno imposto, il tatto appare il senso più penalizzato, a partire dalla richiesta del cosiddetto “distanziamento sociale” (ma sarebbe meglio parlare di “distanziamento fisico” o “distanza di sicurezza”), misura precauzionale che impedisce, appunto, il contatto corporeo: dalla stretta di mano all’abbraccio, dalla carezza al bacio. Proprio l’odierna pandemia, riducendo i contatti o, addirittura, privandocene, fa sentire quanto siano essenziali per la persona. Viene in mente che qualcosa di analogo (e l’esempio non è casuale) accade con la libertà: la sua riduzione o mancanza, ne fa avvertire il bisogno, ne accresce la necessità.