Un monumento al nulla 

di Paolo Annibali.

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Come alla fine dell’estate le giornate appaiono sempre più brevi, così questo mio ultimo tempo è segnato da un senso di inafferrabile accelerazione. Essere sempre in ritardo, giornate inconcludenti, sono costanti della percezione emotiva del mio tempo, che solo minimamente l’elenco razionale di quello che realizzo riesce a mitigare.

Le mie giornate sono condotte dal rigore della scultura che, disciplina non docile, detta i ritmi del fare. Improvvisare è impossibile, la materia impone conoscenza dei procedimenti, calcolo; più che scultore mi sento un costruttore. L’argilla, così apparentemente docile alle carezze delle dita, richiede profonda conoscenza degli spessori, dei ritiri, pena un esito fallimentare.

L’argilla non è solo l’arte del porre, ma anche della pressione, la costruzione viene anche dall’interno. Le sculture in terracotta sembrano prendere vita dalla cavità interiore.

Onestamente non so perché, malgrado la fragilità delle mie mani segnate dal tempo forse per sfida? Cerco nella scultura una dimensione anacronisticamente solenne. Le mie opere nascono sempre in sordina: all’inizio sono contenute in palmo di mano, per assumere via via la concretezza di forme molto articolate
Sento molto l’assenza di quel comune sentire che ha segnato gli anni della mia formazione; sento molto l’assenza di appartenere e condividere quelle idee che lasciavano intravedere un mondo diverso.

L’età adulta è segnata dalla moltitudine di problemi che la complessità del mondo contemporaneo sottopone e per la quale mi sento spesso inadeguato. 
Non ho mai manifestato un interesse malinconico per il mondo classico, nemmeno per la fascinosa galassia degli dèi ed eroi greci; quello che più mi colpisce è il sentimento della fine di quel mondo che ambiva alla perfezione.

Dove sono finiti quegli dèi che, scomparendo, hanno lasciato vestigia così grandiose? Fedeli ormai orfani, a quali santuari avrebbero offerto i loro doni? Sarà stato sicuramente un graduale abbandono, i templi lentamente trascurati si svuotavano di presenze e di senso. Sostituiti da luoghi e da religioni più evolute, non offrivano più quel recinto sacro, quel luogo di identità collettiva. 

Ho cercato di creare una serie di sculture che evocassero l’apparato decorativo di un tempo: le sculture frontonali, le metope, gli acroteri. Sculture Senza tempio, senza l’architettura che avrebbe dovuto accoglierle. Si intuisce dalle posture, dalle storiette dei teatrini (più che metope sembrano presepi), un racconto senza miti né eroi, in cui la mancanza del luogo, nell’incertezza dei gesti e nell’inutilità degli sguardi, diventa assenza di un possibile destino. 

L’uso della terracotta, più che la scultura greca, ricorda la fragilità di quella etrusca, dove la vulnerabilità dell’esistenza era regolata da un senso oscuro della fortuna. È Inutile. Nonostante la volontà di dominare consapevolmente l’opera, questa sceglie sempre una sua via, come un oracolo offre risposte diverse alle attese.

Nonostante il senso di provvisorietà che avrei voluto raccontare con tutti i personaggi, le cinque sculture del frontone hanno assunto la fissità e la solennità di una forma assoluta di esistenza cristallizzata. 
Un monumento al nulla.

(Dal Catalogo della Mostra “Dirà l’argilla”)