Oltre le parole: raccontarsi con le immagini

di Farnaz Farahi.

Ascolta il vocale (mp3, MB).

Quando sono arrivata in Italia avevo diciannove anni, ma mi sentivo come una neonata. Non capivo la lingua, non conoscevo nessuno, avevo perso la mia identità. Avevo con me solo due piccole fotografie in bianco e nero: i volti di mia madre e di mio padre, strappati da vecchie patenti. Quelle immagini erano rifugio e radice, nutrimento nei giorni di spaesamento. Poi, un giorno, mi hanno rubato il portafoglio. Non avevo soldi, ma ho perso quelle foto. È stato uno strappo interiore. In quel momento ho compreso che un’immagine può essere più potente: contiene memoria, affetto, speranza.

Le immagini aiutano a ricordare, a rimembrare, a comunicare, a immaginare. Offrono continuità quando tutto appare frammentato. Mettere in fila le fotografie – del passato, del presente, del futuro che desideravo – mi restituiva ordine. Le immagini parlavano per me, mentre cercavo parole che
ancora non possedevo. Oggi, le utilizzo nei contesti educativi e formativi. Le fotografie aprono dialoghi, evocano emozioni, costruiscono significati. Sono ponti tra culture, linguaggi, vissuti. Non solo rappresentano, ma generano: nuove idee, nuove relazioni, nuove visioni. “Vedere è corpo”, dicevo a
me stessa, e il corpo sente anche ciò che gli occhi non vedono.

La fotografia, come espressione artistica, ha un potere che va oltre la rappresentazione. La sua prima funzione è psicologico-esistenziale, perché ci permette di appropriarcene, di portarla a sé e dentro di sé. Ha una funzione cognitiva, poiché approfondisce la conoscenza e l’osservazione; una
funzione tecnica, come competenza; una funzione sociale, nella sua capacità di rispecchiare la società, di criticarla, denunciarla, trasformarla. Ha una funzione storica e culturale, perché ogni fotografia si carica di significati diversi a seconda del tempo e del contesto. E infine, possiede una
funzione utopica: apre a mondi non ancora esistenti, immaginati, desiderati. La fotografia non si limita a documentare, ma annuncia nuove possibilità di esperienza.

Ho avuto l’opportunità di approfondire la relazione tra fotografia e pedagogia, e il loro legame con l’estetica. La potenza del bello, già riconosciuta da autori come Schiller, Dewey, Proust, Bloch, Heidegger, Marcuse, Gadamer e Adorno, ci ricorda che l’arte può essere una forma di salvezza.

È grazie all’educazione estetica che possiamo prenderci cura di noi stessi. La ricezione di un’opera attiva un dialogo interiore, affina i vissuti, orienta il nostro sguardo sul mondo. L’arte educa perché ci trasforma. E nel silenzio che si crea tra noi e l’immagine, nasce uno spazio di intimità, libertà e consapevolezza.

Mettersi come soggetto all’interno di un’immagine è un atto potente: significa raccontare chi siamo, i luoghi che abitiamo, le persone e le azioni che ci sono care. È un modo per conoscersi e per farsi conoscere, per chiarire a noi stessi chi siamo e per condividere con gli altri il nostro sguardo sul
mondo.

Come afferma Jerome Bruner: «Il sé si costruisce nella misura in cui diventa interprete di se stesso, narratore della propria esperienza». La narrazione visiva, in questo senso, è una forma di comprensione reciproca che crea ponti autentici tra persone e culture.