di Maria Manganaro.
È il più vasto dei nostri organi, l’unico ad avere un peso e un’estensione (9 chili per due metri). È il senso che ci mette in diretta relazione con l’altro, che ci distingue dall’altro, che ci aiuta a diventare autonomi. Eppure è quello a cui prestiamo meno attenzione, nonostante abbia regalato il Nobel per la Medicina a David Julius e Ardem Patapoutian nel 2021, in piena pandemia, quando il distanziamento sociale ci privava di abbracci, di strette di mano e pacche sulla spalla.
Di recente, Laura Crucianelli, docente e coordinatrice del modulo di Neuroscienze cognitive e affettive all’Università Queen Mary di Londra, ha pubblicato un volume a carattere divulgativo talmente agile e intrigante da meritare di entrare nella rosa dei cinque finalisti del Premio letterario Galileo. Edito da Utet, “Storia naturale del tatto”, in poco meno di cento pagine, si inoltra con fare disinvolto nell’ampio universo degli studi e delle scoperte sull’unico senso basato sulla reciprocità, sugli effetti delle carezze, sul tocco lieve e sul tocco violento, sui tabù, sulle conseguenze del touchscreen e persino sugli esiti del cinema sulla nostra pelle.
La neuroscienziata italiana si occupa da anni del tatto affettivo, del modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri fin dal momento in cui veniamo alla luce. Di fatto, siamo tra i pochi animali a nascere prematuri, per cui abbiamo bisogno che qualcuno ci sposti, ci nutra, ci copra o ci scopra. Quel qualcuno è di norma la mamma, che accarezzandosi la pancia entra in contatto volontario già col feto, il quale avverte l’intenzione del tocco e reagisce con movimenti osservati e accertati. Carezze fondamentali nei primi mesi di vita, addirittura necessarie per la sopravvivenza e l’equilibrio del bambino.
Esperimenti condotti negli orfanotrofi fin dagli anni Novanta dimostrano che i bambini privati del contatto affettivo hanno difficoltà a livello cognitivo, emotivo e sociale; difficoltà che una successiva situazione familiare accogliente può ridurre nel lungo periodo. Il tatto, dunque, può avere una funzione riparativa, oltre che consolatoria e appagante, laddove stabilisce un contatto sano con il mondo esterno e con il proprio sé. “È il primo senso con cui entriamo in contatto con il mondo e l’ultimo a lasciarci”, sintetizza Laura Crucianelli nell’introduzione.
È provato che il tocco sulla pelle possa rilasciare ossitocina, quell’ormone antistress che genera sensazioni di calma e benessere quando abbracciamo un amico o accarezziamo il nostro cane. Considerata la reciprocità del tatto, l’effetto è opposto quando il tocco è violento e indesiderato, come dimostrano gli abusi sui minori e non solo. Effetti indesiderati prodotti talvolta da retaggi culturali capaci di suscitare reazioni forti come il MeToo, oppure frutto di un malessere patologico di tipo anoressico.
Dalla pelle passa dunque una comunicazione non verbale, ma potente: un tocco lento e delicato parla il linguaggio dell’amore e della tenerezza, mentre il tocco rapido e deciso sulla spalla di qualcuno vuole attirarne l’attenzione. Ma non dappertutto è lecito toccare una persona. L’autrice dedica un intero capitolo alle abitudini culturali del tatto, che distinguono e definiscono sia la cultura di diversi Paesi del mondo sia l’atteggiamento di talune persone che, come Trump, quando danno la mano, non la protendono ma obbligano l’altro a sbilanciarsi verso di loro.
La neuroscienziata racconta delle situazioni imbarazzanti che si è trovata a vivere nel primo periodo dei suoi quindici anni all’estero, tra Svezia e Regno Unito: “in modo spontaneo toccavo leggermente la spalla di qualcuno per chiedere permesso, ricevendo indietro solo occhiatacce che mi suggerivano di aver superato dei limiti invisibili corporei e non solo”. Nei luoghi affollati, Laura Crucianelli osserva che, per farsi spazio, i nordeuropei preferiscono usare lo zaino o il carrello della spesa pur di non sfiorare l’altro. E, al di là della pandemia, gli svedesi in fila lasciano almeno un metro di distanza fra chi li precede e chi li segue, persino alla fermata dell’autobus, sul quale, una volta saliti, evitano di sedersi accanto a un’altra persona.
Toccarsi più o meno spesso è dunque una questione culturale. Se in Italia è normale salutarsi con un abbraccio e/o con due baci sulle guance, in Giappone è appropriato un inchino a distanza. Una serie di studi degli anni Sessanta ha addirittura calcolato la frequenza dei gesti affettivi tra coppie di innamorati in pubblico: “In Porto Rico in media 180 volte all’ora, a Parigi 110 volte, in Florida due volte, a Londra mai”.
Indagini più recenti dimostrano come le condizioni climatiche influiscano sui comportamenti, generando nei paesi nordici società strutturate “per poter sopravvivere a condizioni climatiche avverse che richiedono più tempo per vestirsi, procurarsi il cibo e pianificare il rigido inverno”. Mentre alle latitudini più prossime all’equatore le persone hanno più tempo da dedicare alle interazioni sociali, al gioco e al contatto fisico.
E il clima è solo uno dei fattori nella definizione dell’identità di un luogo. La scala di J.P. Henningham (1996) misura, in base a dodici domande, quanto un individuo sia conservatore o liberale dal punto di vista sociale, con implicazioni evidenti sul suo stile di vita e sull’uso più o meno ridotto del tatto.
L’ampio catalogo di casi in cui la pelle è protagonista di questo libro da bere comprende la carestia tattile dei teenager costantemente online, la sensazione di sentirsi camminare addosso la tarantola nera di un James Bond d’annata, i piaceri della cucina e molto altro.
Buona lettura, dunque.