di Aldo Grassini.
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TedX Ancona Le parole necessarie, 27 settembre 2025.
Il peso della parola? Consideriamo queste espressioni:
“In principio era il Verbo”; “Le parole sono pietre”; “Vi do la mia parola”; “Questa è l’ultima parola”.
Il significato di una parola è diverso per chi parla e per chi ascolta. Esso è il condensato di un’esperienza di vita. Forse che il significato della parola “casa” è lo stesso per chi abita in un grattacielo di New York e per chi vive in una favela di Rio de Janeiro? Ma anche in Ancona, tra chi ha sempre abitato al Passetto e chi ha sempre abitato agli Archi?
La lingua è fatta di parole. Ma se la parola è problematica, figuriamoci la lingua! La lingua contiene l’esperienza di un popolo. Essa merita sempre rispetto e dignità. Offendere una lingua equivale ad offendere una cultura.
Ci sono lingue più evolute, più grandi rispetto al numero dei parlanti; non lingue superiori.
La lingua è l’identità di un popolo. Non lo è la religione (ci sono popoli che accolgono diverse religioni), non il territorio (ci sono popoli dispersi su più territori).
Ci sono Stati che comprendono più popoli e quindi più lingue.
Il popolo padrone impone la sua lingua in vario modo. L’oppressione di un popolo comincia assai spesso dalla lingua. Una cosa che nessuno ha voluto sottolineare: Putin, in una sua proposta di pace, ha chiesto che il russo divenga la lingua ufficiale dell’Ucraina.
La lingua è espressione di una cultura, di una civiltà.
L’inglese (oggi dovremmo dire l’americano) è una lingua veloce, fatta di molti monosillabi, perfetta per una radiocronaca sportiva.
Il francese è una lingua elegante nei significati e nei suoni. I Francesi (specialmente le donne) si esprimono a bassa voce; curano molto la forma.
Il tedesco è fatto di parole lunghe, spesso composte. Si tratta di un parlare lento (non nei suoni ma nei concetti) e riflessivo. È la lingua della filosofia.
L’italiano è una lingua amatissima dagli stranieri per la sua musicalità. Una lingua vocalica, chiara e melodiosa, fatta per il canto ed esprime un popolo fantasioso e amante del dolce vivere.
L’italiano è la lingua della musica, per la struttura vocalica e per la pluralità degli accenti tonici: parole tronche, piane, sdrucciole, bisdrucciole.
Ecco un esempio:
“Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta…”
Al di là di qualsiasi valutazione estetica, questa è musica. Provate a tradurre la stessa musicalità in francese: impossibile!
L’italiano, in alcuni ambiti, è una lingua internazionale. I discorsi del papa in italiano si rivolgono a un miliardo di cattolici. E, restando in ambito musicale, l’Italia ha inventato il melodramma e il suo stile di canto che tra Seicento e Settecento ha conquistato il mondo.
Le opere italiane sono le più rappresentate, e quasi sempre in lingua italiana.
E sì, alcuni cantanti italiani oggi scrivono le loro canzoni in inglese. Con la lingua, ovviamente, si adottano i ritmi, la musicalità, il suono e i contenuti di una cultura diversa.
McLuhan ci ha insegnato che il messaggio coincide con lo strumento. Parlare una lingua significa pensare in quella lingua e trasmettere i valori e i modi di vivere, insomma la cultura di quel popolo.
La storia ci ha insegnato che la lingua dei padroni diventa la lingua padrona. È questo il colonialismo culturale, e il popolo colonizzato finisce per volersi somigliare al potente anche nella lingua.
Una lingua nazionale non è mai neutrale.
Gli Italiani (e non solo) stanno oggi rinunciando alla propria identità. I giovani non fanno più figli e vogliono lavorare all’estero. Per l’Italia sembra non esserci futuro.
In Italia non si creano più neologismi: si prendono quelli inglesi.
Una lingua senza neologismi è una lingua morta e fra qualche decennio, l’italiano rischia di diventare come il latino: studiato, ma non più vissuto.
Perdere la lingua significa perdere la propria identità, e noi Italiani non abbiamo di che esserne orgogliosi.
Non abbiamo grandi vittorie militari da vantare (per fortuna), ma abbiamo dato al mondo giganti della cultura e del pensiero: Dante, Petrarca, Galilei, Volta, Beccaria, Marconi, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Machiavelli, Leopardi, Pirandello, De Sica, Fellini…
E nella musica: Guido d’Arezzo, Palestrina, Monteverdi, Vivaldi, Stradivari, Rossini, Bellini, Verdi, Puccini.
Che facciamo? Via tutto in nome della modernità?
Come abbiamo detto, l’inglese è la lingua della velocità e degli affari.
Ebbene, sarà perché sono vecchio, ma tra Dante Alighieri e Wall Street, mi tengo Dante!
Abbiamo detto che una lingua nazionale non è mai stata e mai potrà essere neutrale.
Ma allora l’esperanto?
L’esperanto non è la lingua di alcun popolo e non può rappresentare uno stile di vita.
È la lingua di una cultura: la cultura della pace, rispetto alla quale non si può essere neutrali.
Non è vero che l’esperanto voglia sostituire le altre lingue. È vero il contrario: è una lingua internazionale ausiliaria, strumento di comunicazione tra tutte le lingue del mondo, grandi e piccole, che devono essere rispettate e protette.
L‘esperanto non è la lingua dei padroni e non può diventare la lingua padrona.
Un’ultima considerazione.
Alla domanda “cos’è l’esperanto?”, si sente spesso rispondere che è stato un bel progetto, ma fallito.
Ma, di grazia: l’esperanto ha 138 anni di vita!
Chi ha deciso che sono troppi per arrivare alla vittoria finale, cioè diventare uno strumento universale di comunicazione?
Senza potere politico, senza finanziamenti, senza Stati che lo impongano, l’esperanto è sopravvissuto a persecuzioni, guerre e nazionalismi.
Oggi è vivo, parlato in quasi tutti i Paesi, usato in decine di congressi internazionali, presente in letteratura e nella vita quotidiana.
Alla luce di tutto questo, dobbiamo parlare di un fallimento o di un miracolo?