Un rapporto ineludibile quello tra l’uomo e l’arte. Di Fernando Torrente

Psicologo – psicoterapeuta

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Inizio partendo da una bella esperienza che ho vissuto visitando il tempio a Segesta in Sicilia.
Per raggiungere il tempio il cui colonnato è ancora intatto e quindi lo spazio sacro che racchiude occorre allontanarsi dalla strada percorrendo un sentiero, una strada sterrata. Era una bella giornata e attorno regnava il silenzio, solo in lontananza si sentivano i belati delle pecore i loro campanelli. L’impressione era quella di allontanarsi dalla civiltà attuale e fare quasi un viaggio a ritroso nel tempo. Poi si arrivava nel tempio. Le colonne al tatto davano il senso del tempo che su di esse è passato. Il silenzio e l’aria (aura o genius loci se si preferisce) del luogo stimolavano l’immaginazione di come doveva essere quel luogo quando veniva visitato da coloro che lì cercavano il contatto con la divinità.
È evidente che questa “aura” la spiritualità di un luogo la possiamo trovare in molte chiese quando le condizioni lo permettono e cioè quando non sono invase da visitatori vocianti che rendono bello, affascinante la “visita” di un mercato, ma che uccidono il sentire in un luogo pensato per il raccoglimento.
Molti luoghi e molti musei hanno una loro “aura” unica ed è un peccato quando accanto a musei che sono uno spazio imponente, magnifico poi si trova un piccolo spazio dove vengono messe alcune riproduzioni tattili in ambienti che quando va bene assomigliano ad un’aula scolastica.
Tra stupore e bellezza
Ho iniziato con questa mia suggestione per chiarire che alla percezione sensoriale si aggiunge qualcosa in più che è la propria immaginazione e che l’insieme di questi aspetti fa sì che si possa apprezzare appieno di un luogo, di un’opera d’arte perché l’insieme di questi due aspetti provoca in noi ricordi, fantasie per raggiungere poi lo stupore che, dal mio punto di vista, non deve obbligatoriamente coincidere con il bello così come viene inteso in senso comune e che peraltro nella storia, nelle diverse epoche può cambiare i suoi canoni.
Veniamo ora al modo nel quale possiamo godere di un’opera d’arte “tradizionale” cioè non di un’installazione.
Ma prima una piccola osservazione e cioè il fatto che il tatto come scrive il filosofo del linguaggio Marco Mazzeo è vittima di un paradosso: è così fondamentale che tendiamo a tenerlo per scontato. Il contatto con l’opera d’arte avviene per chi vede principalmente attraverso lo sguardo, il guardare, la vista.
La pelle filtra il mondo esterno: è l’organo sensoriale più esteso
Per chi non vede il senso più importante è il tatto, un senso spesso sottovalutato nonostante come scrive lo psicoanalista francese Didier Anzieu:
“Le sensazioni cutanee introducono, fin da prima della nascita, i bambini in un universo di grande ricchezza e complessità, universo ancora diffuso ma che risveglia il sistema percezione-coscienza, che sottende un sentimento globale ed episodico di esistenza e che fornisce la possibilità di uno spazio psichico originario.
Il bambino alla nascita attraverso le contrazioni e all’espulsione dalla vagina subisce un massaggio completo del corpo che mette in moto le sue sensazioni.
Il contatto corporeo risulta essere un bisogno primario per la sopravvivenza. La pelle è come un secondo cervello. Milioni di terminazioni nervose mandano messaggi al cervello dove sono elaborati durante il primo anno di vita in sensazioni, immagini, percezioni, pensieri e parole. La pelle protegge, contiene, delimita e, nello stesso tempo, permette il contatto con gli altri, riceve infinite stimolazioni e risponde. È l’organo che filtra il mondo esterno e ad esso risponde.
La pelle è sicuramente l’organo sensoriale più esteso. Il contatto fisico madre bambino, ad esempio, provoca un grande piacere ad entrambi e del resto basti pensare al piacere di essere accarezzati e di accarezzare, al piacere erotico che proviamo nel contatto con l’altro e nel quale la pelle ha un ruolo fondamentale.
È anche evidente che non è possibile vivere senza pelle, senza tatto e del resto lo scorticamento già dall’antichità era qualcosa di terribile e entrava nelle leggende si pensi alla vicenda fra Apollo e Marsia.”
Il tatto. Percezione e presenza del corpo intero
Ma la mano è l’organo del tatto soprattutto per un non vedente che assume una capacità percettiva, esplorativa, senza perdere la sua funzione esecutiva.
Il tatto quindi possiamo dire che da un lato viene attribuito ad un organo specifico e ben localizzato: le mani; dall’altro è percezione e presenza del corpo intero.
In altre parole possiamo dire che il tatto è un sistema sensoriale complesso che vive della tensione tra due polarità. Una diffusa ed estesa, di solito chiamata somestesica, e una focalizzata e locale, la percezione aptica.
È proprio attraverso la modalità aptica che il tatto riesce a percepire forme in un modo accessibile, quindi è solo attraverso le mani che è possibile esplorare gli oggetti nella loro concreta e simultanea tridimensionalità.
Infatti attraverso l’esplorazione aptica accompagnata dall’esplorazione cinestetica noi possiamo cogliere gran parte delle proprietà di un oggetto e quindi fruire delle opere d’arte.
Ma come ho sottolineato prima il godimento di un’opera d’arte sia per chi vede, sia per chi non vede implica, direi, la combinazione di diversi sensi e dell’immaginazione che quell’opera attiva in noi.
Io in questa sede non mi soffermerò su come si esplora un’opera d’arte attraverso il tatto, sulla preparazione necessaria per goderne appieno, sugli aspetti tecnici delle riproduzioni e neppure sulle differenze fra il tatto e la vista, e neppure sul fatto che il coordinamento visuo-motorio sarà sostituito dal coordinamento bimanuale e dal coordinamento udito-mano; questo richiederebbe un altro articolo e non è quello che io voglio mettere in evidenza in questo mio scritto.
Voglio anche evidenziare che in alcuni casi un’opera d’arte guardata o esplorata con le mani dà le stesse sensazioni, le stesse emozioni: bellezza, gioia, tristezza, sgradevolezza.
Ma ci sono anche opere che possono essere vissute in modo molto diverso e porto ad esempio un’opera che l’artista Piero Gilardi mi ha fatto toccare: L’uragano.
L’opera rappresenta gli effetti devastanti del passaggio di un uragano su una foresta tropicale, effetti evidenti sulla natura e sugli animali. Ad una esplorazione tattile risulta immediata ed evidente la drammaticità della scena: alberi sradicati ed abbattuti, foglie sconvolte e uccelli al suolo. La scena si presenta devastata da una violenza inaudita, e sebbene l’analisi dell’opera avvenga, ovviamente, in maniera analitica attraverso il tatto, non di meno si ha l’impressione che la sensazione di tutto ciò sia immediata e paragonabile a quando si utilizza l’espressione rapida come un colpo d’occhio.
La stessa opera però analizzata da chi vede assume un valore diverso perché tutta la violenza e la drammaticità della scena viene mitigata e quasi annullata dalla vivacità e dall’allegria dei colori scelti dall’artista. A questo punto se si vuole che chi non vede abbia l’intera visione dell’opera così come pensata probabilmente dall’artista occorre utilizzare ed unire all’esplorazione tattile il valore colmativo della parola, la narrazione dell’opera.
Noi crediamo di vedere dove dovremmo soltanto sentire
Ma nonostante questo io penso che non sempre quello che per chi vede è fonte di stupore lo debba essere obbligatoriamente per chi non vede altrimenti rischiamo una sudditanza psicologica che porta il non vedente a dover accettare sempre e comunque il punto di vista di chi vede.
Per concludere mi piace citare Johann Gottfried Herder che già nel 1778 scriveva: “Noi crediamo di vedere dove dovremmo soltanto sentire; alla fine vediamo tanto e così rapidamente da non sentire più nulla, e non riuscire a sentire, poiché tal senso è sempre garante e fondamento del primo. In tutti questi casi la vista è soltanto una formula abbreviata del tatto. La vista è sogno, il tatto verità.”
Inoltre avanzo un’ipotesi forse un po’ ardita, ma che spero possa essere utile per aprire una discussione, un ragionamento.
Noi oltre ad un Io cosciente abbiamo un Inconscio che per esempio, per Carl Gustav Jung non è solo la sede del rimosso del romanzo famigliare (inconscio personale), ma anche un inconscio collettivo sede degli archetipi che di per sé non sono rappresentabili, ma che si manifestano nelle immagini archetipiche, nei sogni, nelle fantasie e questo substrato “arcaico” che opera dentro di noi è lo stesso, in comune sia fra chi vede e chi non vede e quindi una base comune anche interiore, ma anche nella percezione del mondo esterno e quindi forse la distanza di vivere, di provare stupore o meno davanti ad un’opera fra chi vede e chi non vede è meno grande di quanto ad una prima analisi si possa pensare.
Ma ripeto questa è un’ipotesi sulla quale riflettere e confrontarsi.
Ultima considerazione riguarda le istallazioni che di per sé in alcuni casi coinvolgono già tutti i sensi e quindi possono essere goduti senza mediazioni dovute alle riproduzioni sia da chi vede che da chi non vede, ma questo è un argomento che richiederebbe di essere approfondito e non è possibile farlo in questa sede.